dna cervello coscienza consapevolezza educazione
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International Society of Neuropsychophysiology "Dal DNA il cervello, dal cervello la coscienza"
International Society of Neuropsychophysiology"Dal DNA il cervello, dal cervello la coscienza" 

ATTI

dell’Incontro di Studio sul tema

 

 

 

LA CENTRALITÀ DELL’UOMO NEL NUOVO PROCESSO PENALE

 

 

                               organizzato dal C.E.U. in collaborazione con                                il Centro Lunigianesi di Studi Giuridici

 

 

 

Sala Conferenze del C.E.U. – Castello di Tor di Quinto

Roma, 27 giugno 1988

 

 

 

 

pubblicati su IL CERVELLO E L'INTEGRAZIONE DELLE SCIENZE                                                            N. 11-12 ANNO 1988 A.D.E.C.E.U.

 

 

 

INDICE

 

PRESENTAZIONE “La Natura Umana e il Diritto Positivo”

Proff. Michele Trimarchi e Luciana Luisa Papeschi

 

APERTURA DEI LAVORI

Prof.ssa Luciana Luisa Papeschi

 

INTERVENTI

 

S. E. Enrico Ferri Ministro dei Lavori Pubblici

 

Dott. Guido Guasco Sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione

 

Dott. Severino Santiapichi Presidente della I Corte d’Assise di Roma

 

Dott. Francesco Cigliano Magistrato d’Appello

 

Prof. Michele Trimarchi Presidente del C. E. U.

 

Dott. Alberto Maria Felicetti Presidente del Tribunale dei Minorenni di Roma

 

On. Avv. Mario Marino Guadalupi Presidente Onorario di Sezione del Consiglio di Stato

 

Avv. Gabriella Niccolaj Presidente Sezione Romana Associazione Giuriste Italiane

 

Dott. Antonio Leo Sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione

 

CONCLUSIONI

S. E. Prof. Enrico Ferri

 

RASSEGNA STAMPA SULL’INCONTRO DI STUDIO

 

 

PRESENTAZIONE

 

 

 

LA NATURA UMANA E IL DIRITTO POSITIVO

 

              Le aspirazioni di giustizia e di libertà dell’Uomo risiedono in una forma di “coscienza antica” che possiamo definire genetica.

 

             E’ infatti il programma genetico umano che da millenni promuove la vita negli esseri donna e uomo e quindi l’evoluzione dei popoli.

 

 

 

 

 

             Il tempo e lo spazio regolano gradualmente da milioni di anni il divenire di una coscienza capace di contenere le potenzialità del programma genetico che nella filogenesi umana rende giustizia alla vita.

 

 

 

 

 

              Il diritto naturale, dunque, affonda le sue radici nelle leggi fisiche dell’Universo agenti sul nostro Pianeta nel quale tutta l’energia, esprimendo le potenzialità intrinseche contenute nella materia, ha dato vita a sistemi sempre più complessi che si sintetizzano oggi nelle funzioni fisiologiche dell’Uomo.

 

 

 

 

 

              Ecco dunque delinearsi una storia che tutte le scienze dovranno conoscere e considerare, se non vorranno continuare a perpetrare errori che ostacolano la qualità della vita e dell’evoluzione del processo che motiva la nostra presenza tangibile su questo infinitesimale punto dell’Universo (Pianeta Terra), di cui l’evoluzione umana è parte integrante.

 

 

 

 

 

               La società umana dunque non può prescindere dal rispetto che deve alle leggi fisiche naturali, di cui, tra l’altro, deve prendere ancora piena coscienza, poiché la salute, il benessere, la giustizia, la libertà sono regolati da tali leggi, le quali promuovono una coscienza politica da cui prendono forma le leggi che regolano la convivenza sociale e l’autodeterminazione di gruppi intesi come nazioni.

 

 

 

 

 

              La natura umana è parte integrante dell’ecosistema biologico e biofisico, per cui essa ha in sé un linguaggio universale che possiamo identificare nel linguaggio chimico – fisico che promuove quello genetico che, a sua volta, dà vita a quello umano.

 

               Come si può constatare, ogni forma di comunicazione avviene senza interruzioni con una serie di codificazioni strettamente legate al sistema fisico ricevente – trasmittente.

               In tutto ciò la moneta di scambio è l’energia che cambia continuamente forma mantenendo intatta la propria sostanza.

 

 

 

 

 

                L’evoluzione culturale dei popoli è un processo che tende a rendere protagonista la coscienza dell’Uomo.

               Infatti il programma genetico insito nell’Uomo crea una serie di pressioni e pulsioni primarie sull’individuo, il quale deve muoversi nello spazio e nel tempo interagendo costantemente con l’ambiente, dal quale trae nutrimento psicofisico che a sua volta rielabora e trasmette all’ambiente stesso.

 

              Quindi l’ambiente condiziona lo sviluppo dell’Uomo informando e formando il carattere, il comportamento e la personalità degli esseri umani i quali, a loro volta, producono risposte comportamentali tendenti a soddisfare i bisogni fisiologici primari e successivamente quelli indotti dall’ambiente informazionale.

 

 

 

 

 

               Eccoci dunque a tracciare le linee programmatiche di una ricerca scientifica a misura d’Uomo, per dar vita ad una cultura universale che sia sintesi di una storia “infinita”, come di fatto è l’Uomo nella sua sostanza energetica.

 

              Quel che è certo è che la storia scritta e tramandata non rende giustizia a tutti gli esseri umani ed all’ambiente, poiché lascia dei vuoti conoscitivi di tutte quelle vite vissute che hanno inciso fortemente sugli eventi evolutivi del Pianeta.

 

 

              Tali vuoti conoscitivi possono oggi essere in parte riempiti di contenuto, se si considera la centralità dell’Uomo nel suo rapporto con l’ambiente, traendo i significati profondi insiti nella enunciazione dei Diritti Umani sanciti dall’ONU fin dal 1948.

 

 

 

 

 

               Anche se il carattere giuridico di tale enunciazione non è obbligatorio per le nazioni, riveste comunque senso di obbligatorietà per le coscienze democratiche che sono poste alla guida delle nazioni stesse.

                Ed infatti molti principi sono stati recepiti dalle varie costituzioni, producendo una serie di effetti sullo sviluppo delle popolazioni.

 

               Tuttavia notiamo che un passaggio sfugge ancora alle scienze giuridiche, ossia che l’Uomo è un’entità dinamica e integrata e la commissione di un reato non lo depriva della sua dignità, poiché essa è parte integrante dell’essere nella sua globalità.

               Pertanto vanno sempre e comunque ricercate le cause che hanno indotto l’individuo a commettere azioni considerate dal diritto reati e lo Stato ha il dovere di rimuoverle senza venir meno ai principi costituzionali.

 

 

 

 

 

               La maggior parte delle Costituzioni democratiche riconoscono dunque i Diritti fondamentali dell’Uomo: il diritto alla vita, all’autodeterminazione, alla libertà, alla salute, ecc.

 

               Lo Stato quindi dovrebbe garantire ad ogni cittadino una vita serena, scevra da ogni forma di discriminazione, di sofferenza, di competizioni negative, di violazione della sua libertà.

 

 

 

 

 

                Molti affermano che tutto ciò è utopia ma, se così fosse, le Costituzioni e i loro contenuti non sarebbero legittimamente validi e il diritto perderebbe di significato.

 

                Quindi i principi costituzionali non sono utopici ma vanno concretamente realizzati e garantiti dallo Stato.

 

               Le vere disfunzioni, semmai, vanno ricercate in quelle funzioni statuali preposte a garantire quanto sopra espresso: la scuola, l’università, la ricerca scientifica, gli apparati giudiziari, ecc.

 

 

 

 

 

               Se i cittadini fossero realmente consci delle garanzie che lo Stato deve loro, essi denuncerebbero innanzi tutto la scuola, poiché il più delle volte robotizza i ragazzi e crea devianze di varia natura, danneggiando fortemente la “formazione” di una coscienza umana e sociale a cui l’individuo avrebbe diritto.

 

               In questo caso scopriremmo con un’indagine approfondita che la qualificazione della maggior parte degli insegnanti non è idonea alle funzioni statuali assegnate loro.

 

 

 

 

 

               Le Università non favoriscono l’espressione delle potenzialità creative umane, ma condizionano sempre più ad assimilare nozioni che il più delle volte si perdono con l’acquisizione della laurea.

 

             Al contrario, le Università dovrebbero favorire la ricerca creativa, l’autocritica e l’universalità dei valori, per creare uomini in grado di realizzare i principi costituzionali, pianificandoli per la società in maniera tale che ogni essere si possa riconoscere e sviluppare nel contesto sociale di cui fa parte senza essere costretto a soffocare la propria dignità con compromessi continui che lo alienano nella sua sostanza umana.

 

 

 

 

 

              La giustizia in via di principio dovrebbe essere giusta, ma non è tale se l’essere umano non si riconosce in essa.

 

              Se è vera l’affermazione di Cristo (il quale è morto sulla croce per testimoniare quanto ha affermato): “Chi è senza colpa scagli la prima pietra”, dobbiamo riconoscere che ogni essere umano impara dalle esperienze, dall’educazione e soprattutto dagli errori.

 

 

 

 

               La giustizia dovrebbe somministrare all’individuo la coscienza dell’errore commesso più che una punizione, che il più delle volte viene rifiutata dall’individuo odiando coloro che agiscono in nome della giustizia stessa.

 

               Semmai la comprensione dell’errore compiuto può creare “pena” nell’individuo per aver commesso reati.

 

 

 

 

 

               Lo Stato, dunque, se vuole rendere giustizia al cittadino, non deve tanto somministrare coercizioni, ma deve prevenire, con un’educazione appropriata, i reati dando al cittadino la possibilità di comprendere il perché esistono ricchi e poveri, deboli e potenti, sani e malati e, soprattutto, perché nasce e muore.

 

 

 

 

 

               Vi sono dei meccanismi nelle strutture cerebrali umane che spingono l’individuo a difendere quanto ha acquisito mnemonicamente con le sue esperienze; tali difese vengono esercitate con la cultura acquisita e il grado di coscienza raggiunto dall’individuo: qualsiasi azione egli compia, per lui è sempre motivata e tale motivazione gli “dà ragione”.

 

               La giustizia dovrà tenere conto di tali meccanismi per cui il giudice, se vuole essere “peritus peritorum”, dovrà arricchire la sua conoscenza entrando in quei campi dello scibile che riguardano la fisiologia umana, la quale dovrà essere descritta dalle Scienze Integrate, per porre in evidenza la sviluppo di una personalità corretta che, come si potrà constatare, dipende da due fattori fondamentali:

 

 

1) il programma genetico che controlla ogni attività biologica del cervello umano;

 

 

2) tutto l’ambiente informazionale, il quale va a modellare dinamicamente la personalità.

 

 

 

 

             Qualsiasi forma deviante della personalità dipende da quanto le informazioni esterne favoriscono o inibiscono o distorcono l’espressione delle potenzialità genetiche insite nel cervello.

 

             Questi sono studi che riguardano particolarmente le scienze giuridiche, in quanto l’imputabilità dell’individuo dipende dalla capacità di intendere e di volere e nessun essere umano “può” volere se non gli si creano motivazioni corrette in sintonia con le pulsioni del proprio programma genetico.

 

 

 

 

 

              La maggior parte dei reati è da attribuire all’ignoranza che si ha della legge e laddove si conosce la legge, non sempre la si condivide perché essa vuol spesso condizionare la natura umana limitandola in spazi troppo angusti per certe forme di evoluzione mentale.

 

 

 

 

 

             Il programma genetico umano, dunque, legittima il diritto naturale, la dignità della persona, la libertà, il desiderio di giustizia, il diritto alla vita.

 

            Il diritto positivo trova le sue radici nel diritto naturale e di conseguenza nel “genoma umano”.

 

 

 

 

 

             L’evoluzione dei popoli progredisce gradualmente verso la realizzazione di leggi e regole di vita sociale sempre più confacenti al diritto naturale.

 

            Lentamente si rimuovono i confini geopolitici per far sì che l’essere umano possa accrescere i suoi spazi di libertà.

 

            E’ ovvio che una maggiore coscienza dei cittadini li rende più rispettosi della libertà degli altri.

 

             Nessuna nazione apre volentieri i propri confini a cittadini di altre nazioni che non abbiano raggiunto lo stesso gradi di civiltà, economico, ecc.

             Tutto ciò rientra in meccanismi evolutivi che mirano “egoisticamente” a “migliorare” le proprie condizioni sociali troppo spesso a scapito di quelle degli altri.

 

 

 

 

 

             Gli “accordi” giuridici internazionali nascono purtroppo da interessi reciproci fra le nazioni, tendenti in qualche modo a favorire economicamente entrambe, poiché nessuna nazione è disposta a cedere altruisticamente qualcosa senza un reale ritorno.

 

 

 

 

 

             Da tutto ciò appare lampante che i Diritti Umani nei loro fondamenti sono rimasti un po’ sulla carta, per cui nelle Scuole, nelle Università, negli apparati giudiziari e nella scienza non hanno acquisito il pieno titolo dovuto loro dall’adesione politica di tutte le nazioni.

 

             E anche se le Costituzioni li hanno in parte recepiti nei loro ordinamenti giuridici, di fatto la vita sociale delle nazioni stesse li nega quasi nella loro totalità.

 

             Si vedano a tale proposito le varie indagini condotte dalle Nazioni Unite sullo stato generale del Pianeta e sull’evoluzione dei popoli: degrado sociale e ambientale in aumento, criminalità crescente, l’uso di droghe in ascesa e nell’ambito sanitario aumento di malattie iatrogene, per abuso di farmaci, ecc.

            Non crediamo comunque sia necessario ormai elencare ulteriormente dati che vengono riportati ogni giorno dai quotidiani e che quindi sono alla portata di tutti.

 

 

 

 

 

           Per converso vediamo l’arroganza di uomini nell’ambito della comunità scientifica che continuano a imporre metodi ampiamente sperimentati e obsoleti, i cui risultati sono riconoscibili dalla mancanza di soluzioni ai problemi umani e sociali.

 

           Tutti vantano successi nella ricerca scientifica, ma i problemi non si risolvono e piuttosto se ne creano sempre di nuovi.

 

          E allora chi deve risolverli?

         

           I politici o gli scienziati?

 

           Il fine dell’Uomo politico è quello di soddisfare i bisogni fondamentali della società e di rendere giustizia ai singoli cittadini.

 

           Ma come può l’uomo politico adempiere alle sue fuzioni se la scienza non gli dà gli strumenti?

 

 

 

 

 

             Quindi in questo caso è la scienza la maggiore responsabile della situazione in atto.

             Le sue “formule magiche” non danno al politico la possibilità di risolvere i problemi, per cui le scienze dovranno rivedere i loro metodi di ricerca e porre l’Uomo al centro dei loro studi, poiché la ricaduta di ogni risultato scientifico, in ultima analisi, è sempre sull’Uomo.

 

            Per converso vediamo che la maggior parte delle discipline scientifiche viene asservita dalle industrie per la continua ricerca di nuovi prodotti e nuovi strumenti tecnologici per la competizione dei mercati internazionali finalizzati al profitto e non al benessere dell’Uomo.

 

 

 

 

 

             Cosa possono dire le scienze giuridiche dell’Uomo?

 

             Nulla o quasi nulla, poiché esse continuano ad elaborare norme, leggi, con un sistema tecnico pseudo – scientifico che esclude a priori la fisiologia umana.

 

             La vita nelle sue molteplici forme è globale e non può essere ridotta ad una regola o ad una legge senza tener conto del dinamismo dell’interdipendenza di tutte le situazioni in cui l’essere umano vive costantemente.

 

 

 

 

 

              La nostra proposta è un nuovo metodo che utilizza la pluridisciplinairetà delle scienze per ricomporre un mosaico dinamico in cui sono sempre presenti da protagonisti la donna e l’uomo con i loro “ruoli” fisiologici, neuropsicologici, sociologici.

 

             Tale mosaico permetterà soprattutto allo studioso di scienze giuridiche di integrarsi con una politica capace di rendere giustizia al programma genetico dell’Uomo, senza il quale nulla ha senso, e quindi non siamo legittimati in nessuna funzione sociale se essa non favorisce l’evoluzione umana verso una coscienza individuale e collettiva, in cui il rispetto dei Diritti fondamentali dell’Uomo deve essere il normale comportamento di tutte le funzioni statuali, pubbliche e private.

 

MICHELE TRIMARCHI e LUCIANA LUISA PAPESCHI

                                                                 Presidente e Vicepresidente del C.E.U.

APERTURA DEI LAVORI

 

 

Luciana Luisa Papeschi

Vice Presidente del C.E.U.

 

 

           Prima di tutto desidero darvi, come Vice Presidente del C.E.U., il benvenuto in questo pomeriggio non troppo caldo, in cui il tempo si è rimesso e ci ha permesso di fare questo Incontro di Studio il cui tema è veramente importante e credo che sia all’attenzione di tutte le coscienze, poiché ciò segna una evoluzione del pensiero umano che porterà certamente a un mondo migliore.

 

 

 

 

 

            Intanto vorrei ringraziare tutte le Autorità presenti in rappresentanza del Governo, del Consiglio Superiore della Magistratura, della Suprema Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato, e tutti i magistrati studiosi del diritto penale e delle problematiche inerenti alla giustizia in generale.

 

           Inoltre vorrei ringraziare la stampa, rappresentata dal Presidente della Federazione Nazionale e tutte le forze dell’ordine qui presenti, impegnate particolarmente oggi, al Castello di Tor di Quinto, nella protezione e difesa dei presenti che operano incessantemente per l’affermazione della giustizia a tutela e garanzia dei diritti costituzionali e dei diritti umani.

 

 

 

 

 

            Mi scuso se non cito i nomi e i titoli dei presenti ma, come si potrà comprendere, l’elenco sarebbe molto lungo e passeremmo tutto il pomeriggio solo ad elencare i nomi.

 

           

 

 

 

             Ritengo doveroso farmi portavoce di tutti gli assenti che hanno inviato telegrammi o hanno telefonato, assenti soltanto per motivi indipendenti dalla loro volontà ma che desiderano essere spiritualmente presenti in quanto condividono l’iniziativa da noi intrapresa.

 

             Innanzitutto il Presidente della Repubblica invia un caloroso saluto e un augurio di buon lavoro.

 

             Hanno formulato altresì il loro augurio: il Presidente del Consiglio De Mita; l’On. Sen. Giovanni Spadolini, Presidente del Senato; l’On. Giuliano Vassalli, Ministro di Grazia e Giustizia; l’On. Giulio Andreotti, Ministro degli Affari Esteri; l’On. Carlo Donat Cattin, Ministro della Sanità; l’On. Vito Lattanzio, Ministro della Protezione Civile; l’On. Calogero Mannino, Ministro dell’Agricoltura e Foreste; l’On. Gianni Prandini, Ministro della Marina Mercantile; il Sen. Amintore Fanfani, Ministro degli Interni; l’On. Giuliano Amato; l’On.

Amato; l'On. Giuliano Silvestis; l’On. Luciano Violante; l’On. Marte Ferraris; l’On. Vittorio Martuscelli; l’On. Enrico Manca, Presidente della R.A.I.; S.E. Dott. Francesco Saja, Presidente della Corte Costituzionale; S.E. Mario Berri; il Prof. Antonio Brancaccio, Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione; il Dott. Renato Dell’Andro della Corte Costituzionale; il Dott. Vincenzo Parisi, Capo della Polizia, qui rappresentato dal Prefetto Grimaldi; il Gen Giuseppe Tavormina, Capo di Stato Maggiore dell’Arma dei Carabinieri; il Gen, S. A. Franco Pisano, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, qui rappresentato dal Ten. Gen. Capo di Corpo di Commissariato Aeronautico Alfredo di Cicco; il Gen. C. A. Roberto Iucci, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri; il Prof. Talamo, Rettore dell’Università di Roma; il Dott. Biagio Agnes, Direttore Generale della R.A.I.; il Prof. Saverio Avveduto, Direttore Generale Scambi Culturali del Ministero della Pubblica Istruzione; il Dott. Francesco Mario Agnoli, del Consiglio Superiore della Magistratura, e numerosissimi altri rappresentanti delle Forze Armate, del mondo politico, della cultura e della scienza.

 

 

 

 

 

            Mi scuso con tutti coloro che non ho citato, ma devo assolutamente cedere la parola a S.E. il Ministro Enrico Ferri che è in attesa di aprire i lavori di questa importantissima sessione di studio che, come tutti sapete, intende porre l’uomo al centro del suo processo evolutivo e, nella fattispecie, del nuovo processo penale il cui rito deve considerare tutti quegli aspetti fisiologici umani senza procrastinare oltre l’attesa di giustizia dell’uomo nella società.

Enrico Ferri

Ministro dei Lavori Pubblici

 

 

           Nel tragitto dal Ministero dei Lavori Pubblici a questo incontro, devo dire che mi sono caricato un po’ di emozione perché tornare così improvvisamente, sia pure dopo poco tempo, ad occuparmi in qualche modo di giustizia e soprattutto del rapporto tra il cittadino e la giustizia – e cioè ciascuno di noi e questa istituzione fondamentale per lo Stato, per la pace sociale, per una vita di relazione che effettivamente possa essere destinataria delle esigenze fondamentali dell’uomo – mi ha fatto riflettere molto; e trovarmi in mezzo a tanti, tantissimi amici, magistrati, esponenti e rappresentanti le Istituzioni e a tanti amici attivi nella società civile, mi induce ad avvertire un profondo senso di responsabilità in un momento così difficile, così tormentato per tutti, in cui si sente l’esigenza di ridefinire tante regole.

 

            Si avverte soprattutto l’esigenza di un raccordo migliore tra le Istituzioni e tra le Istituzioni e la società civile.

 

 

 

 

 

             Vorrei partire da una brevissima considerazione: il magistrato, oggi, avverte, e per dire la verità lo avverte da qualche tempo, quanto sia spesso traumatico il rapporto tra il cittadino e l’istituzione di Giustizia, per diversi motivi.

 

              Prima di tutto perché sull’istituzione di Giustizia, cioè sulla giurisdizione, si sono scaricate molte tensioni, molti problemi irrisolti dagli altri poteri dello Stato (sia dal legislatore che dall’esecutivo) e si avverte quindi profondamente questo tipo, in fondo, di strappo alla legalità, perché è in realtà una sovrapposizione di ruoli, di supplenze, che poi sono supplenze a volte stabilite con legge, a volte imposte da leggi antiquate e a volte determinate dalla carenza dell’intervento del legislatore.

 

             E allora ecco che questo rapporto diventa teso e spesso drammatico quando la risposta dell’istituzione non può soddisfare tute le attese dei cittadini.

 

             Tutto ciò si è avvertito in diversi settori, negli ultimi anni.

 

             Settori di vita di relazione civile, settori più drammatici: pensiamo ai momenti terribili del terrorismo, alla legge sui pentiti, al rapporto tra cittadino e istituzione quando l’opinione pubblica attendeva da determinati processi risposte non più strettamente giurisdizionali, ma anche politiche.

 

 

 

 

 

               Pensiamo a tutte le attese, gli interrogativi inquietanti sul processo Moro.

 

              Questo tipo di situazione ha fatto sì che, tra l’altro, il cittadino si trovasse spesso, e si trovi ancora in determinate circostanze, in mezzo a due tipi di processo, proprio per questo scollamento tra società civile ed istituzione: un processo celebrato nelle aule di giustizia ed un processo celebrato sulla stampa o sulle piazze.

 

 

 

 

 

               L’Italia spesso si è divisa di fronte a questi processi: il processo Tortora, il processo Muccioli, quanti esempi potremmo ricordare insieme.

 

              Esempi conflittuali, di tensione che hanno messo a dura prova la magistratura al proprio interno, la collettività civile e le istituzioni, e che chiedono oggi una riflessione seria, ordinata, ragionevole, un recupero di identità istituzionale, perché poi il rapporto finisce sempre per scaricare tutte le insoddisfazioni, la scarsa credibilità, sul cittadino, cioè sull’uomo che è al centro dell’istituzione, quindi al centro del processo, sia esso imputato, parte lesa, testimone, o comunque un protagonista del processo.

 

 

 

 

 

              Questa tensione provoca lacerazioni, tormenti, insoddisfazioni, conflittualità.

 

              Basta pensare alla vicenda referendaria: quante tensioni ha scatenato, quante incomprensioni e insoddisfazioni.

              Ecco che poi è il cittadino che rimane il punto di riferimento insoddisfatto.

 

 

 

 

 

             Visto dall’altra parte, e cioè dal punto di vista antecedente alla giurisdizione, nel momento costruttivo (il momento in cui si fanno le regole, si definiscono i rapporti, si interviene nella vita sociale), allora si avverte quanto sia necessario oggi, proprio avendo come punto di vista fondamentale l’uomo, la persona umana, il cittadino, far sì che si ritrovi lo spazio giusto per la pubblica amministrazione, per il governo della città, perché i rapporti tra i cittadino e le istituzioni siano rapporti efficaci, funzionali; far sì che la cittadino venga garantito concretamente lo spazio di libertà che gli è dovuto e la funzione giurisdizionale riacquisti quello spazio che deve essere inevitabilmente residuale e cioè deve essere il più ristretto possibile perché sia sempre più credibile e sempre più verificabile.

 

              Altrimenti il cittadino, l’uomo, nel momento in cui si trova al centro del processo penale (anche se molte di queste considerazioni penso che valgano anche per il processo civile e per la giustizia in genere) non riesce più ad avvertire quali siano i limiti e i contenuti della sua domanda e della sua richiesta alla giustizia.

 

              E inevitabilmente, proprio perché intorno non c’è un aiuto, una struttura, un collegamento con le altre istituzioni, finisce per allontanarsi.

 

 

 

 

 

             In mezzo alla gente si avverte quindi questa mozione di sfiducia: l’uomo, il cittadino sostanzialmente si sente tradito dalle istituzioni, sia nella fase costruttiva e preventiva, sia nella fase giurisdizionale che poi inevitabilmente è più traumatica perché è il momento più duro, in cui l’uomo si vede giudicato da un altro uomo.

 

            Il rapporto soffre di tutte quelle valutazioni umane, psicologiche che hanno accompagnato sempre la giustizia e questo tipo di rapporto tra l’uomo e un’istituzione, rapporto che lo mette un po’ alle corde di fronte a sé stesso, di fronte alla collettività civile, di fronte allo Stato.

 

 

 

 

 

               Io credo che bisogna essere estremamente chiari in questo settore: non possiamo dribblare o contrabbandare alcuni concetti.

 

               Bisogna effettivamente, io credo, iniziare un discorso nuovo proprio perché qui, e soprattutto in questa occasione, affrontiamo un argomento di estrema delicatezza ma sotto due profili particolari.

 

 

 

 

 

                Non a caso l’iniziativa è promossa dal Centro studi per l’Evoluzione Umana e quindi ha uno scopo ben preciso e ben determinato, e cioè quello di vedere in che modo effettivamente l’uomo possa essere aiutato, partendo dalla sua conoscenza effettiva, ad evolvere sé stesso e cioè a realizzare sé stesso nella maniera più serena, più completa possibile.

 

                E sotto questo profilo il concetto dovrebbe essere ovvio, visto che è tra l’altro uno dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana.

 

                Ecco quindi perché il centro Lunigianesi di Studi Giuridici di Pontremoli ben volentieri ha accettato questo invito così allettante sia sotto il profilo dialettico, sia sotto il profilo non solo giuridico, ma anche sensibilmente umano.

 

 

 

 

 

               Ecco che i due piani credo che debbano essere identificati con grande correttezza e con grande rigore, anche perché il cittadino nel processo, nella giustizia, trova anche altre tentazioni, come quella di avere risposte diversificate, perché al giudice il legislatore ha affidato anche compiti paragiurisdizionali sempre più ricchi di contenuto.

 

              Egli interviene in diversi settori particolarmente delicati: pensiamo al settore delle tossicodipendenze, al settore minorile, a quello sociale in generale, al problema dell’aborto, visto che quando parliamo di uomo nel nuovo processo penale, e comunque in senso allargato nella giustizia (e mi fa piacere che ci sia l’amico Felicetti qui con noi) certamente si parla dei più grossi problemi emergenti.

 

 

 

 

 

              In quanti momenti il giudice, il magistrato, deve intervenire facendo sì che il rapporto diventi non più rigorosamente e strettamente tecnico – giurisdizionale, ma si riempia di emozioni, di contraddizioni, di risoluzioni di problemi immediati e di rapporti con il resto della società civile.

 

              E quindi ecco che tutti quei punti di riferimento che sembravano destinati a dare una mano al giudice e quindi alla giustizia, e cioè le strutture sociali, i servizi sociali, le U.S.L., i Centri di Psicologia, in realtà, diciamocelo con chiarezza, non hanno poi funzionato molto.

 

 

 

 

 

              La risposta del giudice spesso è rimasta soltanto all’interno del Palazzo e il cittadino si è trovato ancora una volta scoperto.

 

             Ecco perché questa lacerazione del tessuto istituzionale è particolarmente grave e delicata: perché non funziona bene il primo tipo di rapporto ed io, facendo già questi primi passi, diciamo, come Ministro della Repubblica, me ne sto accorgendo.

 

             Bisogna ammettere che si tratta di un rapporto inceppato che non riesce a dare risposte in tempi credibili, un tipo di rapporto che soffre e che è in crisi.

 

            Si sente quindi la necessità di correre ai ripari, ridefinendo determinate regole, ma certamente non settorialmente, ed è questa la terza riflessione che io vorrei fare.

 

 

 

 

 

             La centralità dell’uomo nel processo penale e nella giustizia in genere, il suo tipo di difesa, il suo modo di avvertire responsabilità e diritti, spesso dipende anche da come funziona la pubblica amministrazione e dal modo in cui si sono definite alcune regole; io credo, e penso che ci crediamo tutti, che noi viviamo in uno Stato di diritto, in uno Stato in cui quarant’anni fa, quando è stata sottoscritta la Costituzione della Repubblica Italiana, è stata fatta una scelta ben precisa perché il costituente non ha scelto uno Stato etico, scelta che avrebbe potuto compromettere o comunque orientare in un certo senso il modo di affrontare la vita di relazione, la vita sociale, il contratto sociale.

 

              Però ha stabilito alcuni principi fondamentali di valore indubbiamente etico, con alcuni diritti che avrebbero potuto anche non essere scritti nella carta costituzionale perché hanno radici profonde nella coscienza dell’uomo.

 

              Ed ecco il profondo nesso dal punto di vista psicologico, evolutivo e formativo perché l’uomo, inconsapevolmente o consapevolmente, confronta poi tutto quello che avviene all’esterno con questi valori di cui riconosce l’essenzialità, il bisogno, all’interno della propria coscienza. Ecco che questa sorta di neo – giusnaturalismo è molto forte perché richiama valori universali che hanno radice e legittimazione all’interno della coscienza dell’uomo.

            Lo Stato non può chiudere gli occhi, non può non rendersi conto dell’impegno che deve rispettare nel momento stesso in cui è chiamato dalla Costituzione a rimuovere tutti gli ostacoli per far sì che ciascuno di noi possa realizzare, compatibilmente con le libertà degli altri, la propria libertà di coscienza e personale.

 

 

 

 

 

            È un impegno affascinante, che richiede però una particolare attenzione, una verifica costante delle regole, perché c’è un principio etico trasversale nella Costituzione della Repubblica, cioè il rispetto delle regole.

 

            Questo dà tranquillità al cittadino in quanto è un riscontro verificabile uguale per tutti e risponde alle esigenze profonde di coscienza che ciascuno di noi comunque avverte.

 

 

 

 

 

             Se non funziona questo tipo di Stato, nel quale crediamo fermamente, o se non funziona bene, se si inceppa, se alcuni valori costituzionali non sono stati attuati, lo strappo, nel momento traumatico della patologia del sistema, è più profondo perché l’incertezza delle regole, l’incertezza dei ruoli istituzionali, rende l’uomo al centro di un processo particolarmente incerto ed in un rapporto drammatico perché, o si sente vittima, o comunque non si sente garantito da un sistema che dovrebbe rappresentare il momento di una verifica obiettiva di un certo tipo di equilibrio.

 

 

 

 

 

              Credo che la sentenza della Corte Costituzionale riguardante un principio acquisito nella coscienza e nella tradizione giuridica (cioè il principio dell’ignoranza della legge e della sua inescusabilità) sia stata un po’ sottovalutata e che meriterebbe di essere al centro di un convegno o di dibattiti.

 

              Avendone letto, come molti di voi, la motivazione, mi pare che sia una sentenza che parta da una considerazione di questo tipo: è l’incertezza delle regole, che significa anche incertezza dell’interpretazione delle regole, è soprattutto questo tipo di rapporto che il cittadino non tollera più, ma non lo tollera più nemmeno lo Stato, tanto è vero che in determinati momenti lo Stato cede, ha ceduto sotto diversi profili, spinto dalla necessità, dall’urgenza, dal dramma, dalla violenza.

 

               Però nel nostro sistema, che certamente tradisce l’uomo contro il rispetto delle regole, contro la sua centralità, contro quel modo di intendere le istituzioni e quindi anche il processo a servizio dell’uomo, è la logica del sospetto perché nell’incertezza delle regole, nell’impossibilità spesso di verificarne l’essenzialità ed i rispetto in termini credibili, si insinua quella logica terribile del sospetto che inquina non solo i rapporti tra uomini (perché oggi spesso sospettiamo gli uni degli altri), ma anche tra il cittadino e l’istituzione.

 

 

 

 

 

              È questo il momento terribile, perché se il cittadino sospetta delle istituzioni e si sente sospettato attraverso il funzionamento delle istituzioni (pensiamo nel processo alla comunicazione giudiziale, tanto per fare un esempio, che anche qui soffre di un mancato raccordo tra la collettività civile e lo Stato) si evidenziano alcuni poteri di fatto che hanno messo ancor più a dura prova il rapporto tra istituzione e società.

 

             E così spesso il mancato raccordo, ad esempio, tra la stampa – qui abbiamo il Presidente della Federazione della Stampa, Guido Guidi – e la magistratura, l’ha messa spesso al centro di conflitti proprio perché non c’è stato un raccordo chiaro, ad esempio, tra il segreto professionale e il segreto istruttorio, e che ha determinato anche sotto questo profilo una crisi profonda del rapporto e ha messo nuovamente il cittadino in mezzo.

 

 

 

 

 

              Ecco quindi che questo cittadino, che il tema sembra inchiodare solo nel nuovo processo penale, in realtà ne esce subito fuori perché il processo penale certamente attinge e riflette tutte le articolazioni, i vari processi che la società civile al di fuori delle regole (spesso seguendo la logica del sospetto) pronuncia e celebra al cittadino.

 

              Ecco quindi che l’uomo, cioè ciascuno di noi, si può trovare al centro di più processi.

 

 

 

 

 

             Credo che dovremmo accennare, sia pure brevemente, a due problemi che si riflettono poi nel processo penale.

 

             E cioè alle situazioni giuridiche soggettive di cui il cittadino è titolare, o ha creduto di esserlo secondo determinati schemi ben precisi, che oggi si sono estremamente diversificate, e nel processo penale in particolare, basta pensare a tutte

le polemiche sulla costituzione di parte civile in ordine alla titolarità di interessi, diciamo, diffusi.

 

              Pensiamo alla violenza sulle donne, pensiamo ai valori dell’ecologia, dell’ambiente, della qualità della vita.

 

 

 

 

 

               Ecco quindi che l’uomo nel processo penale ha portato, come nella giustizia in genere, la diversificazione e il graduale cambiamento, ma molto incisivo, anche di vecchie, tradizionali distinzioni: diritto soggettivo e interesse legittimo, interessi diffusi, diritti soggettivi pubblici più forti e quindi la capacità e la legittimazione di portare nel processo la violazione non soltanto di un diritto soggettivo proprio, ma di un interesse diffuso di una collettività, di un quartiere, di una parte di società.

 

 

 

 

 

                 Ecco che il processo si è ampliato enormemente, non dico fino a coincidere con tutte le esigenze della società civile, ma quasi, proprio perché l’aver addossato ad esso diversi compiti non istituzionali ed aver per legge attribuito allo stesso competenze paragiurisdizionali e quindi, essendosi così ampliato il territorio del processo penale, ecco che la centralità dell’uomo nel processo penale è estremamente complicata e subisce traiettorie diverse, è facilmente distratta, è facilmente tirata fuori dal processo penale vero e proprio e si trova a dover confrontarsi con altri tipi di realtà, paraprocessuali che disorientano l’uomo che dovrebbe rientrare con forza e credibilità nel processo (per esempio il processo Buscetta).

 

 

 

 

 

                  Ma il tema richiama il nuovo processo penale e cioè una riforma attesa da tanto tempo, da tantissimi anni, su cui si è discusso moltissimo, riforma che oggi dovrebbe essere realizzata e che suscita, però, diciamolo subito, molte perplessità e molti interrogativi, perché è un sistema diverso, un sistema accusatorio che si svolge attraverso l’oralità, attraverso l’istruttoria dibattimentale, e cioè attraverso una riduzione del segreto del processo, in cui il rapporto tra l’uomo e il processo, il cittadino e il processo è un rapporto particolare, perché in questo tipo di rapporto giocano gli interessi generali della collettività e della giustizia e quindi anche qui si aprirebbe tutto un settore di riflessioni e di interventi estremamente interessante.

 

 

 

 

 

               Però noi siamo abituati a vivere in una realtà in cui è cambiato il tipo di criminalità, l’associazionismo criminale, e visto che qui abbiamo dei maestri in questo campo, non sta a me soffermarmi molto su questo punto, perché da Santiapichi a Nino Abbate, a Vincenzo Geraci, a Guasco, a moltissimi amici che sono qui, a Marini, a Infelisi, tutti hanno vissuto e vivono in prima persona questo tipo di problematica processuale che è un’altra caratteristica della società di oggi.

 

 

 

 

 

                E allora, ritornando all’uomo e alla sua centralità, chi è dunque al centro del processo?

 

                È veramente l’uomo, o rischia di essere al centro del processo soltanto un certo tipo di ritualità, in un senso o nell’altro, che finisce poi per dimenticare che c’è quell’uomo con quelle sue esigenze di difesa, ma anche di risposta in termini di responsabilità nei confronti della società civile e dello Stato?

 

 

 

 

 

               Ecco che l’argomento diventa particolarmente delicato e urgente, anche perché un processo delicato attraverso diverse articolazioni, dall’udienza preliminare a forme non solo di decreto, ma di giudizio direttissimo, di giudizio immediato, di istruttoria subordinata, di patteggiamento sullo stile del processo di Common Law, chiede per la sua funzionalità una serie di adempimenti.

 

 

 

 

 

               Alcuni adempimenti, direi, partono proprio dalle strutture in cui diventano essenziali.

 

                Io stesso come Ministro del Lavori Pubblici mi sono sentito in dovere di scrivere al Ministro della Giustizia, d’accordo con il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per dirgli “facciamo intanto una ricognizione del rapporto esistente tra giudice e aula”, per vedere se può essere realizzato questo tipo di processo diversificato che dovrebbe puntare ad una maggiore centralità del cittadino nel processo stesso, nel senso di renderlo più attivo “collaboratore” della giustizia e valutare la sua condizione quindi attraverso il comportamento, attraverso il riconoscersi colpevole o responsabile, attraverso una determinata sanzione.

 

                Se questo tipo di processo diversificato non si può realizzare per problemi che sussistono già nelle strutture fondamentali, se i processi si accavalleranno, se ritarderanno enormemente o se le istruttorie dibattimentali non si potranno svolgere, se si dovrà ricorrere, diciamo normalmente, all’incidente istruttorio per cui si riammetterà praticamente tutta quella istruttoria che veniva fatta distintamente.

 

 

 

 

 

               Nell’attuale processo, ecco che la centralità dell’uomo e del cittadino nel processo può soffrire ancora una volta delle mortificazioni che certamente non gioverebbero a questo programma di ricostruzione, di ridefinizione di regole e di funzionalità della giustizia.

 

               Io credo quindi che l’argomento di oggi offra molto spazio alla riflessione, ma anche ad un impegno politico, immediato di ragionevolezza: non ci possiamo permettere di sbagliare dopo aver atteso tanto una riforma.

 

 

 

 

 

               Quest’anno ricorrono i cento anni della morte di Francesco Carrara i cui concetti evidenziano che non rispolveriamo nessun problema nuovo poiché l’uomo si è sempre dibattuto perché il processo significa anche sanzione; è quindi la sanzione la più adatta per poter riavvicinare quell’uomo, che ha rotto un certo equilibrio, al contesto sociale, per non allontanarlo definitivamente; i vari tipi di sanzione cui anche il nostro ordinamento si sta avvicinando: la sanzione alternativa, sostitutiva, sanzioni di fatto, comportamentali, sanzioni rigorosamente penali, detentive, non potranno certamente essere eliminate, ma richiedono sempre che questa presenza, questa centralità dell’uomo non venga mai persa di vista, anche nella fase esecutiva del processo (e qui si aprirebbe il discorso sulla detenzione visto che è ancora processo, anche se la consideriamo l’esecuzione di una sentenza).

 

 

 

 

 

                 Dove comincia il processo e dove finisce?

 

                Credo che questo sia un interrogativo molto inquietante perché spesso il processo “comincia prima” e spesso “finisce tardi”, troppo tardi, o spesso non finisce mai perché è quel processo che poi continua nella società civile quando essa non è preparata, non è abituata e non vuole allontanarsi dalla logica del sospetto; attraverso il certificato penale (il precedente penale) la società continua a sospettare e quindi a chiudere la porta a quell’uomo di cui invece si dovrebbe favorire l’evoluzione, il reinserimento.

 

 

 

 

 

              Questi sono concetti che a volte diamo per scontati: credo però che non sia per niente scontato realizzarli nella pratica quotidiana.

 

               Io mi sto accorgendo anzi che far funzionare le cose semplici e scontate ha qualcosa in sé di rivoluzionario, perché è talmente difficile che diventa quasi una rivoluzione, sia pure una rivoluzione pacifica, certamente costruttiva.

 

 

 

 

 

               Questa rivoluzione la dobbiamo fare, partendo proprio dalle cose più semplici, senza complicarle troppo e cercando di ritrovare effettivamente la centralità dell’uomo non soltanto nel processo, nella giustizia, ma nella società civile, visto che è questo l’obiettivo fondamentale.

 

 

 

 

 

                L’ultima osservazione che vorrei fare è questa: non possiamo nemmeno permetterci il lusso di aspettare che arrivino tutte le regole nuove, ma dobbiamo anche interpretare e vivere le regole attuali nel modo migliore, non certamente facendo strappi alla legalità, ma utilizzando tutte le regole per far sì che la centralità dell’uomo nel processo risponda a quelle attese che la società si ritrova già nella propria coscienza, e credo che l’avvertirle tutte insieme sia già una rivoluzione.

 

 

 

 

 

                 Il Prof. Trimarchi e la Sig.ra Papeschi sono certamente maestri sotto questo profilo e io credo che sia basilare questo tipo di dialogo tra il diritto e il profilo che studia l’evoluzione umana dal punto di vista più ampio, più profondo, attraverso l’analisi del nostro cervello in cui si riflettono tante cose; credo che bisognerebbe anche cominciare a parlare di più di psicologia giudiziaria, perché la centralità dell’uomo nel processo richiede anche un certo tipo di disponibilità psicologica nell’interrogare, nel valutare le risposte, che spesso noi trascuriamo.

 

                 Ora a Torino è nata un’iniziativa tra alcuni colleghi: un centro di psicologia giudiziaria, per cercare di capirci all’interno, parlo di noi magistrati certamente, visto che affrontare il rapporto nel processo penale con un altro uomo non è cosa scontata. Io ho sempre detto e pensato che la verità, e lo penso a maggior ragione ora sentendomi responsabile, diciamo così, di una pubblica amministrazione, che per fare il giudice occorre amare molto la gente, perché chi non ama la gente e fa il giudice credo sia meglio faccia un’altra professione; amare la gente non significa pietismo, significa avere rispetto degli altri.

 

 

 

 

 

                   Credo che l’avere delle responsabilità istituzionali nel campo della pubblica amministrazione non esoneri certamente da questo, anzi forse richieda anche qui un amore particolare per gli altri e credo che attraverso questa forza noi possiamo, anche nella slabbratura contingente delle regole, ricondurre l’uomo alla sua centralità.

 

                   Lo sapranno fare molto bene attraverso le parole, ma anche e soprattutto attraverso il loro esempio e la loro testimonianza, l’amico Guido Guasco della Procura Generale presso la Corte di Cassazione alla quale rivolgo, essendo il mio vecchio ufficio, un particolarissimo saluto affettuoso; il Presidente di Corte d’Assise, Severino Santiapichi; il Prof. Franco Cigliano, Consigliere di Corte d’Appello; il Prof. Michele Trimarchi, certamente, che è il Presidente di questo Centro al quale io spero che il Centro Lunigianesi possa dare un piccolo, modesto, ma sincero aiuto.

 

                  Quindi io adesso aprirei i lavori di questa interessante tavola rotonda. Grazie.

LA PERSONALITÀ DELL’AUTORE DEL REATO NEL NOUVO PROGETTO DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE

 

 

Guido GUASCO

Sostituto Procuratore Generale

presso la Suprema Corte di Cassazione

 

            La riforma del codice processuale penale, che sta ormai per entrare nella dirittura di arrivo di un percorso pluridecennale, ampiamente innova l’impostazione che ha caratterizzato il testo del 1930, e prosegue per altro verso il ciclo evolutivo che ha portato l’individuo, da soggetto destinatario di un’indagine con limitata titolarità di diritti, a una piena centralità nel rapporto processuale in posizione di pariteticità con la contrapposta parte pubblica e talora addirittura in una situazione di preminenza rispetto a quest’ultima.

 

 

 

 

 

             Di questa soggettività di diritti già la Costituzione aveva   fissato i punti inderogabili, e ripetuti interventi ablativi e correttivi della Corte Costituzionale avevano ribadito al legislatore la necessità di adeguarvi la normativa vigente.

 

             Di fatto le modificazioni intervenute negli ultimi decenni nella disciplina processuale, con frequenza sempre più accelerata anche per effetto delle leggi speciali contro la criminalità organizzata, prima su singoli istituti poi su più vasti settori, ma sempre peraltro con una visione necessariamente parziale e non organica del sistema, non avevano potuto risolvere compiutamente il problema, creando anzi spesso difficoltà nella ricostruzione del dato normativo per il caso concreto, e avevano quindi suggerito di predisporre prima, e di accelerare poi, una totale riforma che, per illuminare quella centralità, non poteva che passare attraverso l’abbandono del sistema inquisitorio: il quale, ancorché più valido ai fini di un’efficace repressione di una delinquenza crescente, esprimeva un autoritarismo non più conforme allo spirito dei tempi e delle nuove aspirazioni sociali.

 

 

 

 

 

               Premevano oltretutto in questo senso non solo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo proclamata dalle Nazioni Unite il 10/12/1948, ma anche l’adesione alla Convezione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4/11/1950 e ratificata con 1.4/8/1955 n. 848, nonché al Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 19/12/1966 e ratificato con 1.15/10/1977 n. 881, e sulla loro scia talune pronunce della Corte di Cassazione che, pur confermando l’esclusivo vincolo delle norme internazionale tra gli Stati contraenti e quindi la limitazione della loro sfera di applicazione a questi ultimi, davano però atto della natura immediatamente percettiva di talune di esse e perciò della loro diretta assunzione nell’ordinamento positivo mentre, quanto alla produzione di contenuto programmatico, ne sottolineavano la validità come criterio interpretativo delle norme di diritto interno e la idoneità della loro mancata realizzazione applicativa a legittimare il contenzioso internazionale davanti ai competenti organismi da parte del cittadino, ammesso direttamente a tali procedure dal 1/8/1973.

 

             

 

 

 

 

              Ed in effetti in passato sia la Commissione che la Corte Europea di Strasburgo avevano avuto occasione di stigmatizzare il comportamento dilatorio della Stato italiano, anche con affermazioni di responsabilità, specie in materia di ragionevolezza del termine di durata del processo, dell’effettiva difesa gratuita del nullatenente, della garanzia dell’esercizio della difesa anche nelle decisioni in camera di consiglio, del diritto di ricorso al fine di accelerare una procedura, della verifica reale dello stato di latitanza o di contumacia.

 

              Nel frattempo la graduale evoluzione dogmatica delle discipline penalistiche, ancorata nel diritto sostanziale alla funzione rieducativa della pena, con il ripudio della dottrina della retribuzione, dell'intimidazione e della reintegrazione con il parziale

superamento del concetto di difesa sociale, e nel diritto processuale alla presunzione di innocenza dell’imputato e indiziato fino alla condanna definitiva, nonché al consolidamento e alla garanzia dei diritti individuali, avevano caratterizzato gli studi più recenti, evocando accanto ai fondamenti tradizionali della scuola positiva quelli delle correnti umanistiche collegate alla sociologia e alla filosofia idealistica giuridica; e un’analoga evoluzione aveva permeato, sia pure in diversa misura, gli ordinamenti di vari Paesi, soprattutto europei.

 

 

 

 

 

              In concomitanza con l’estensione del diritto di difesa e con il maggior impegno verso le relative garanzie si era intanto venuto delineando un nuovo scrupolo di studio della personalità dell’imputato, che aveva trovato una prima attuazione nella fase esecutiva carceraria attraverso la 1.26/7/1975 n. 334 e il Regolamento approvato con D.P.R. 29/4/1976 n. 431, incentrati sull’individualizzazione del trattamento penitenziario, sulla sua specificazione e sulla determinazione delle relative modalità, ma soprattutto sulla predisposizione dell'"osservazione scientifica della personalità per 

rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale” (art. 13 legge) o meglio e più dettagliatamente “per l’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisiopsichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione” (art. 27 Regol.) da condursi secondo le occorrenze “anche con professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica” (art. 80 legge e 28 Regol.), attraverso i Centri di Servizio Sociale e i Centri di Osservazione istituiti dagli art. 62 e 63 della legge: questi ultimi, ai sensi del menzionato art. 63, sono anche legittimati a procedimento penale dietro richiesta e provvedimento di assegnazione dell’autorità giudiziaria, “per l’esecuzione di perizie medico – legali”, usandosi al riguardo un’espressione intesa possibilisticamente in senso ampio, in relazione all’oggetto specifico di attività e di ricerca scientifica dei Centri stessi.

 

 

 

 

 

             Misure analoghe, sia nella fase di espiazione della pena che in quella istruttoria, per la particolare delicatezza dell’indagine riguardante la delinquenza minorile in ordine a personalità che sfuggono a una rigida classificazione scientifica, erano state previste e introdotte dal legislatore già con il R.D.L. 20/7/1934n. 1414 istitutivo degli organi della giustizia minorile, che impone l’obbligo di “speciali ricerche rivolte ad accertare i precedenti personali e familiari dell’imputato sotto l’aspetto fisico, psichico, morale e ambientale”, mentre autorizza il magistrato ad “assumere informazioni e sentire pareri di tecnici senza alcuna formalità di procedura, quando si tratta di determinare la personalità del minore e le cause della sua irregolare condotta” (art. 11), e stabilisce centri di osservazione “con lo scopo precipuo di fare l’esame scientifico del minorenne, stabilirne la vera personalità e segnalare i mezzi più idonei per assicurarne il recupero alla vita sociale” (art. 8). Successivamente la 1.25/7/1956 n. 888, nel ribadire e ampliare questa finalità, ha riordinato gli istituti di osservazione affiancandovi gabinetti e istituti medico – psico – pedagogici anche per studiare il soggetto e sperimentare trattamenti rieducativi in libertà o semilibertà allorché l’internamento possa a tale scopo apparire controindicato.

 

 

 

 

 

                È in attuazione dell’art. 3 lett. e) e g) della legge delega n. 81 del 1987 il progetto preliminare delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni riguarda e valuta la personalità di questi con ampie e specifiche disposizioni negli art. 7 e 24 e, in ipotesi particolari, negli art. 13, 26 e 28.

 

 

 

 

 

                 Con la 1.3/4/1974 n. 108 il Parlamento delegò per la prima volta al Governo l’emanazione de nuove codice di procedura penale. Nella direttiva n. 9 la legge fissava l’attuazione del criterio dell’ ”effettivo giudizio sulla personalità dell’imputato e dell’acquisizione in contraddittorio di elementi che consentano una compiuta conoscenza del soggetto, esclusione di informazioni generiche e voci correnti" e nella

direttiva n. 10 faceva particolare riferimento alla perizia medico – legale, psichiatrica e criminologica, sollecitando l’impegno della “massima competenza tecnica e scientifica dei periti” nonché, nei congrui casi, con interdisciplinarietà e collegialità della ricerca peritale.

 

 

 

 

 

              Notevole era in questa enunciazione il richiamo alla perizia criminologica e altrettanto notevole il superamento del decreto fissato nell’art. 314 pr. cvp. C.P.P., che esclude il ricorso a perizie “per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e a personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”, demandando esclusivamente alla valutazione globale del giudice anche la statuizione circa la pericolosità sociale del soggetto, fuori dei casi di presunzione legale, da desumersi sulla base degli elementi acquisiti al processo in ordine alla gravità del reato e alla capacità a delinquere (art. 203 e 133 C.P.) e sulla base delle sue cognizioni psicologiche: quasi che una valutazione approfondita dell’individuo nella qualità, attitudini e tendenze non dovesse trovare ingresso fuori dei casi di malattia e quasi che il giudice penale, al quale l’ordinamento giudiziale non richiede alcuna particolare conoscenza delle discipline che studiano l’imputato dal punto di vista biologico e psichico, fosse umanamente in grado di compiere un così penetrante esame con cospicue conseguenze anche in ordine a misure detentive di sicurezza.

 

 

 

 

 

               Notevole altresì era il riferimento ad un tipo di perizia che, con i suoi necessari legami antropologici e sociologici, anche ove si volesse considerare la criminologia come un’autonoma scienza a struttura integrata, investirebbe e coinvolgerebbe in pieno l’interdisciplinarietà scientifica, consentendo di ottenere un completo diagramma panoramico della personalità del reo.

 

 

 

 

 

               Se non che ogni richiamo alla perizia criminologica è scomparso nella corrispondente direttiva n. 10 della legge – delega n. 81 del 1987, insieme con ogni altra specificazione di perizie: così come è scomparso il principio solennemente fissato nella menzionata direttiva n. 9 della legge – delega n. 108 del 1974.

 

 

 

 

 

                  Si impone allora di valutare ragioni ed effetti di tali abolizioni.

 

                Orbene, l’eliminazione dell’ultima direttiva è, o almeno sembra, pienamente

comprensibile e priva di rilievi pratici.

 

 

 

 

 

               E’ invero evidente che il processo penale, nell’esame della relazione tra il fatto e l’uomo, come deve tendere ad accertare e definire la realtà storica del primo, i suoi particolari e le circostanze che ne connotano la gravità, così non può prescindere dalla sua fenomenologia bio – sociologica, e deve quindi approfondire nel più ampio modo possibile la personalità dell’autore onde trarne le conseguenze in ordine alla responsabilità e alla graduazione della pena, alla diagnosi di criminalità e alla prognosi di pericolosità, all’applicazione delle misure di sicurezza e alla realizzazione della prevenzione speciale: e il progetto contiene al riguardo norme specifiche, come l’art. 194 che ammette le deposizioni sulla moralità dell’imputato con richiamo di “fatti specifici idonei a qualificarne la personalità in relazione al rato e alla capacità a delinquere”, l’art. 209 che riproduce lo stesso principio a proposito dell’esame delle parti, l’art. 236 concernente l’acquisizione di documenti “ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato”, l’art. 274 lett. c) in cui la personalità dell’imputato viene in considerazione per quanto attiene alle misure cautelari.

 

 

 

 

 

               D’altronde si è già accennato come a riguardo degli imputati minorenni la legge – delega del 1987 e il concomitante progetto preliminare che ne è scaturito abbiano emanato congrue direttive e norme in tema di valutazione e di tutela della loro personalità.

 

 

 

 

 

                Ed elemento imprescindibile per la “compiuta conoscenza del soggetto” è del pari l’indagine sul carattere del reo, rilevante agli stessi fini dell’esame della personalità, ma colpita come si è detto dallo steso divieto di giudizio peritale allorché esso non affonda in turbe psicologiche.

 

 

 

 

 

                Se la personalità è il complesso delle disposizioni psicofisiche dell’uomo che si riflette nel suo modo di reagire all’ambiente, nei suoi interessi e bisogni, nei suoi scopi e nel suo comportamento, il carattere ne è la sintesi psichica e nello stesso tempo la matrice e l’informazione, la radice subconscia espressa dalla vita e dalle vicende dell’individuo, della famiglia, del gruppo e della classe, dalla costituzione fisiopsichica e quindi dal patrimonio genetico, nonché dall’ambiente; è pertanto un fattore di indubbia importanza per identificare le cause delle manifestazioni di condotta.

 

 

 

 

 

                Riaffermare perciò la direttiva n. 9 della legge – delega n. 108 del 1074 sarebbe equivalso a un’ovvia postulazione di principio, in linea generale, che nulla avrebbe aggiunto al compito istituzionale del giudice.

 

 

 

 

 

                Ma per altro verso l’impostazione di un’illimitata indagine, anche con gli strumenti peritali, sulla “personalità” e per la “compiuta conoscenza del soggetto” avrebbe espressamente e quindi troppo autorevolmente urtato contro un criterio, quale quello enunciato nel cit. art. 314 cpv. C.P.P., adottato non senza riserve e dissensi allorché fu emanato il codice processuale vigente, come conseguenza del ripudio dell’accertamento bio – psicologico della predisposizione a delinquere, e avrebbe quindi “ingenerato notevoli difficoltà e pericolosi equivoci”, come annota la relazione con cui l’On. Casini il 14/12/1983 presentò alla Camera dei Deputati le modifiche apportate dalla Commissione Giustizia alla legge – delega del 1974: avrebbe cioè spalancato con la forza della legge una porta rimasta tradizionalmente chiusa e la cui apertura si riteneva più opportuno affidare alla discrezionalità dell’operatore giuridico, anche al lume dell’intervenuta evoluzione scientifica.

 

 

 

 

 

                Si deve allora osservare che dall’eliminazione della direttiva n. 9, dalla più generalizzata modificazione della direttiva n. 10, dall’imminenza della cessazione del divieto di cui al cit. art. 314 C.P.P. per effetto della sostituzione da parte del codice riformatore e dalla carenza al riguardo di specifiche previsioni di quest’ultimo, può fondatamente trarsi la deduzione che l’accesso nel progetto della perizia criminologica sulla personalità e sul carattere del reo non è precluso. Invero l’ampia formulazione dell’art. 220 (“la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”) non contiene alcuna eccettuazione.

 

 

 

 

 

                  E d’altronde la sentenza n. 364 del 22/3/1988 della Corte Costituzionale, che ha riscritto l’art. 5 C.P. ammettendo la scusabilità dell’ignoranza inevitabile della legge penale, potrebbe talora spogliare di assurdità un eventuale accertamento psico – sociologico per le quali l’agente non si sia neppure prospettato un dubbio sull’illeceità

del fatto si identifichino in una “personale non colpevole carenza di socializzazione, per la quale l’ignoranza della legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile” secondo l’esemplificazione casistica accennata nella sentenza medesima: tanto più che il mero fondato dubbio sulla coscienza dell’illiceità penale del fatto, comunque la si voglia giuridicamente inquadrare, e fino a che il legislatore non sia intervenuto integrativamente, imporrebbe una sentenza assolutoria ai sensi dell’art. 523 del progetto.

 

 

 

 

 

              Ma v’è di più.

 

              Accanto alla personalità criminale e ai suoi riflessi sulla capacità delinquenziale attuale, che caratterizza soggettivamente il fatto commesso dall’agente nel suo momento storico, il codice penale sottopone spesso alla considerazione del giudice anche la pericolosità sociale dell’individuo, che esprime un concetto attinente all’avvenire del soggetto.

 

 

 

 

 

               Socialmente pericolosa è, ai sensi dell’art. 203 C.P., “la persona, anche se non imputabile o non punibile … quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati” e, come già si è accennato, la qualità si desume da una serie di circostanze previste nell’art. 133 C.P., quasi tutte antecedenti o coeve al fatto.

 

 

 

 

 

              Orbene fino a pochi anni fa la pericolosità sociale, fosse o non conseguente ad infermità psichica, era in determinati casi presunta in via assoluta dalla legge, in altri valutata dal giudice ma sempre riferita la momento del fatto o al massimo del suo accertamento probatorio, potendo spiegare assai scarsa influenza il peso della “condotta susseguente”, unico criterio cronologicamente successivo al reato, ma spesso non apprezzabile per latitanza, espatrio, irreperibilità o impossibilità di adeguati controlli.

 

 

 

 

               Era quindi sostanzialmente basata su una presunzione di immutabilità, quanto a natura e intensità dell’infermità psichica o capacità di recupero sociale, e appariva comunque inconciliabile con l’evoluzione che nei congrui casi l’infermità attraverso le opportune terapie, e la personalità antisociale attraverso il trattamento in istituto e gli strumenti rieducativi potevano subire nel lungo periodo intercorrente tra il momento del fatto e l’espletamento dei vari gradi della giurisdizione penale fino alla totale espiazione della pena, al termine della quale la misura di sicurezza, che è effetto della dichiarazione di pericolosità, viene normalmente eseguita.

 

 

 

 

 

                Se non che con sentenza n. 139 del 27/7/1982 e poi con sentenza n. 249 del 28/7/1983 al Corte Costituzionale ha fissato, per quanto attiene alla pericolosità derivante da infermità psichica, la necessità del previo accertamento da parte del giudice della persistenza della pericolosità stessa al tempo dell’applicazione della misura di sicurezza; e successivamente l’art. 31 1. 10/10/1986 n. 663, la direttiva n. 96 della legge – delega del 1987 e l’art. 670 del progetto hanno definitivamente attuato quel criterio, preludendo così a una diversa assiologia dell’art. 133 C.P. e degli elementi che, preesistenti o contemporanei all’episodio delittuoso, non sono più in grado di esercitare una concreta influenza prognostica su situazioni da adottarsi a distanza di anni e non assistite da osservazioni dirette in regime penitenziario o psichiatrico.

 

 

 

 

 

               Ecco allora che in questi casi l’ausilio di un’indagine scientifica, cui il progetto sembra dischiudere le porte, potrebbe proporsi come efficace e talora imprescindibile strumento di collaborazione all’accertamento: onde anche sotto tale aspetto ritornano di attualità i voti espressi oltre sessanta anni fa dai seguaci della scuola penale positiva che, sulla scia delle ricerche morfologiche, costituzionali ed endocrinologiche della scuola italiana di medicina, auspicava una specializzazione integrata del giudice con la collaborazione dell’esperto tecnico, per mettere a fuoco la personalità globale del delinquente o il suo carattere quale fonte di valutazione della stessa.

 

 

 

 

 

                Mi sembra quindi di poter concludere che l’Uomo, sotto l’aspetto etico, giuridico, psicofisico sia stato attentamente considerato dal progetto nei limiti inderogabili che impone la conflittualità delle sue esigenze con quelle di tutela della collettività.

 

 

 

 

 

                 Il vaglio della pratica attuazione potrà dire se, con l’apparato di strutture, mezzi e personali che dovrà essere necessariamente predisposto e di fronte allo sviluppo organizzativo della criminalità, il nuovo sistema sarà in grado di reggere alle impostazioni ideali che l’hanno ispirato.

 

 

 

 

 

 

 

               Ringrazio Guasco che è entrato proprio dentro l’uomo attraverso un’analisi approfondita dei concetti del nuovo processo penale, tra i quali la pericolosità sociale, anche se a volte non si riesce bene a cogliere tutte le conseguenze che essa ha nei riflessi della vita di relazione.

 

              Pensiamo anche a quel tipo di processo che porta poi alle misure di prevenzione che oggi hanno ormai acquistato una natura non più amministrativa ma giurisdizionale e anche per quanto attiene all’applicazione della legge cosiddetta antimafia in cui dubbi interpretativi ed esigenze sociali passano poi attraverso un’indagine che è legata spesso ad un sospetto, questa volta legale agli indizi.

 

              Quindi mi sembra che sia molto interessante la riflessione che ha fatto Guasco.

 

              Ora dò la parola a Severino Santiapichi.

 

 

Severino SANTIAPICHI

Presidente della I Corte d’Assise di Roma

 

              Il quadro generale vi è stato già offerto da Enrico Ferri che mi ha fatto piacere rincontrare da Ministro pur conservando il Ferri dei vecchi amori di Magistrato.

 

              E nei particolari, poi, è stata ampia ed esauriente la relazione del collega Guasco.

 

 

 

 

 

             Il tema del nostro incontro può avere tre punti di riferimento nella sequenza formale di atti che è il processo.

 

             Il processo ha la possibilità di convergere su tre soggetti, è actus triarum persona rum, e quindi il riferimento alla centralità dell’uomo può essere fatto o in relazione al giudice, o in relazione all’accusato, o in relazione all’accusatore.

 

 

 

 

 

              A seconda che si ponga l’accento su uno di questi soggetti piuttosto che su un altro, abbiamo ovviamente diverse forme processuali, diverse possibilità di regole del processo stesso.

 

              Par di capire che sul tema odierno, sull’impostazione della discussione di questa sera pesi una sorta di nostalgia: il rimpianto cioè di un’illusione o, se vogliamo essere più espliciti, il rimpianto di un naufragio.

 

               È naufragato il tentativo che si era fatto nel passato di cercare di scavare più a fondo, al fine di accorciare lo spazio tra il giudice e l’accusato.

 

 

 

 

 

               Ci sono tutti i presupposti perché si torni a nutrire questa che può essere, se volete, un’illusione, ma che può anche costituire una speranza.

 

              E però io credo che non si tratti, come stanno le cose oggi, tanto di insistere sulla necessità di dotare il giudice di adeguati supporti per conoscere la personalità dell’imputato, quanto si tratta piuttosto e con urgenza prioritaria di porre al centro del processo l’imputato e accanto all’imputato la difesa dell’imputato.

 

            Si tratta cioè di porre l’imputato in condizione di difendersi fin dal primo momento della contestazione dell’accusa; si tratta, in altri termini, di garantire l’effettivo esercizio della difesa.

 

 

 

 

 

              Mi pare che tra le soluzioni possibili quella adottata dal Progetto non sia senz’altro ottimale, ma tuttavia, nella situazione attuale, questo era il massimo sforzo che, par di capire, poteva essere fatto dal nostro legislatore.

 

 

 

 

 

                C’è in noi giudici una piena disponibilità all’applicazione della riforma se e quando sarà introdotta, se e quando entrerà in vigore; però noi non dobbiamo guardare solo ai tre soggetti del processo.

 

               Non mi pare che sia vero che dai tempi di Carrara non sia successo nulla oggi nel nostro Paese.

 

 

 

 

 

            Mi pare che qualche presenza inquietante e diffusa ci sia e che a questa presenza pericolosa, inquietante e diffusa, noi giudici, e la società intera, ci dobbiamo adattare.

 

             E questa presenza è costituita da una ragnatela che ha varie articolazioni: è la ragnatela della criminalità organizzata.

 

              Ed è un’esigenza prioritaria del Paese quella di intervenire affinché questa ragnatela non ci soffochi tutti.

 

 

 

 

 

               Ecco allora che accanto ai tre soggetti del processo noi dobbiamo darci carico anche della ragion d’essere del processo che certamente non è uno strumento indirettamente legato ad esigenze repressive della società, ma che tuttavia serve anche a questo scopo.

 

 

 

 

 

              È giusto che le regole del gioco siano cambiate, è giusto che sia stabilita parità piena di condizione tra accusa e difesa, è giusto che le lungaggini procedurali siano completamente eliminate, ma è altresì necessario che ci si renda conto che se alle volte ci sono state delle remore, ci sono state delle esitazioni da parte della Magistratura circa alcune regolamentazioni di istituti particolari del progetto del nuovo codice di procedura penale, esse erano imputabili all’esigenza di assicurare una certa efficienza nella lotta contro la criminalità organizzata.

 

 

 

 

 

                E allora riguardo alle nuove regole del processo, noi dobbiamo guardarle non soltanto in funzione delle garanzie che vanno date all’imputato, il che mi pare ovvio, ma vanno date anche in funzione dell’esigenza che una giustizia rapida e ovviamente certa può ottenere maggiori risultati nei confronti della criminalità organizzata che una giustizia incerta e particolarmente lenta.

 

 

 

 

 

                Ora il problema accennato da Ferri non è soltanto questo.

 

                Non basta la disponibilità di noi magistrati.

 

                È difficile oggi parlare di magistrati, ma dobbiamo farlo con la nostra serenità, perché si tratta di problemi che concernono tutti da vicino.

 

 

 

 

 

                 Il problema particolare è ancora un altro ed è il problema delle risorse di cui noi magistrati disponiamo.

 

                 Io sono rimasto un po’ sorpreso dall’affermazione del Ministro Ferri riguardo al fatto che si è ancora in uno stato di censimento dei locali da destinare alle aule di giustizia.

 

 

 

 

 

                Pare sia imminente l’entrata in vigore della nuova riforma, e tuttavia le aule, gli edifici giudiziari sembra che non ci siano, che siano ancora da censire e mi pare allora che qualche altro si dovrebbe dar carico dell’adeguamento delle strutture.

 

 

 

 

 

              Allorché noi parliamo di necessità di penetrare più a fondo la personalità dell’imputato, ci si deve render conto che questo è possibile a condizione, per esempio, che in una singola udienza non si debbano trattare trenta o trentacinque processi, perché lo spazio di tempo che può essere dedicato ad ognuno di questi trentacinque processi è naturalmente resecato.

 

 

 

 

 

              Mi pare anche che allorché l’On. Ferri parla di funzione resecata, residuale della giurisdizione, e allorché c’è un riferimento, tanto in Guasco quanto in Ferri, alla recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di ignoranza della legge, mi pare che ci si debba dar carico degli altri, intendo dire, che si deve dar conto del massimo intervento legislativo che recupera la sanzione penale.

 

              Mi sembra che questo massivo intervento alla repressione penale – e di questa preoccupazione c’è traccia in un’intervista del Presidente della Corte Costituzionale fatta di recente – lasci spazio ad una qualche critica fondata.

             Quindi noi diciamo che c’è nel nuovo processo penale indubbiamente un recupero della centralità dell’uomo, e intendo dire della centralità dell’uomo imputato, nel senso che si attribuisce a questo imputato una possibilità più piena di difendersi.

 

 

 

 

              Non siamo al vero e proprio processo accusatorio: siamo in una forma resecata di questo processo accusatorio, anche perché il nostro sistema non ha flessibilità, ad esempio, del sistema nordamericano.

 

              E allora c’è questo recupero che tuttavia è destinato ad aver luogo dentro una botte vecchia: e se non si rinnova la botte possono determinarsi problemi seri circa la genuinità del vino.

 

             Questa, personalmente, è una ragione di preoccupazione, diffusa in molti magistrati. Grazie.

 

 

 

 

 

             Molti di voi sapranno che Santiapichi è autore freschissimo di un libro di esperienze vissute che ha un titolo molto significativo: “Le ragioni degli altri”, che in un processo spesso vengono dimenticate o non vengono ascoltate.

 

              Io credo che questo sia un messaggio molto chiaro che Santiapichi brillantemente ha ripreso, ricordando le ragioni degli altri e giustamente anche la ragione d’essere del processo in una società che certamente è tormentata dalla criminalità organizzata.

 

              Ringrazio Santiapichi e darei la parola a Francesco Cigliano, magistrato, ma che si occupa, voglio sottolinearlo, con molta sensibilità del problema dei diritti umani anche all’interno del Centro studi per l’Evoluzione Umana. Prego.

Francesco CIGLIANO

Magistrato d’Appello

 

 

            Il progetto del nuovo codice di procedura penale – la cui gestazione sembra ormai volgere a termine – impone una profonda meditazione.

 

            Indubbiamente è conforme a democrazia formale e a tutela individuale la sua impostazione tendenzialmente accusatoria con partecipazione della difesa e dell’accusa in condizione di parità nel rispetto dei principi del contraddittorio e della oralità; l’attribuzione della attività investigativa esclusivamente al P.M. – privato, per la sua posizione di parte, di ogni potere di coercizione della libertà personale, fatta eccezione per il fermo – la scomparsa del giudice istruttore; la formazione della prova in dibattimento; il diritto del difensore di partecipare alla sua formazione (mediante l’esame diretto delle parti, dei testimoni, dei periti); la riserva in via esclusiva al giudice delle misure cautelari personali (con esclusione di ogni ipotesi di cattura automatica); la previsione – accanto alla tradizionale custodia cautelare in carcere – di una vasta gamma di misure coercitive personali (divieto si espatrio, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, divieto e obbligo di dimora, arresti domiciliari; artt. 280 – 284); la restrizione dei termini di durata massima della custodia cautelare in carcere (art. 303).

 

 

 

 

 

              È pertanto in via di superamento l’assetto inquisitorio dell’attuale sistema processuale penale, per molti aspetti incompatibile con il diritto di difesa, quali i vasti poteri del pubblico ministero, spesso identici a quelli del giudice; la mancanza di terzietà del giudice istruttore; la formazione segreta della prova; la destinazione del dibattimento ad una sorta di verifica delle prove precedentemente acquisite.

 

 

 

 

 

             I riti alternativi del nuovo sistema, alcuni già sperimentati (giudizio direttissimo, giudizio immediato, il giudizio per decreto, il cosiddetto patteggiamento), sono finalizzati alla riduzione dei procedimenti da fare giungere alla trattazione dibattimentale, ad una anticipata conclusione del processo, ad una semplificazione delle procedure, in una parola ad una maggiore funzionalità del sistema.

 

 

 

 

 

              La valutazione del progetto del nuovo codice appare pertanto positiva sotto il profilo formale ed è ragionevole ritenere che le suddette finalità saranno attuate, qualora vi sia adeguamento nelle strutture funzionali e professionali.

 

 

 

 

 

              Non possiamo però acquietarci a tale valutazione estrinseca, ma dobbiamo chiederci se il nuovo processo attui i principi della Costituzione e delle norme delle convenzioni internazionali relative ai diritti umani, come specificamente previsto nella delega legislativa al Governo per l’emanazione del nuovo codice (legge 16 febbraio 1987 n. 81).

     

              Temiamo purtroppo che la risposta non sia del tutto positiva!

 

              Senza necessità di specifici richiami ai diritti umani disciplinati in atti internazionali ben noti, già ricordati, mi sembra che sostanzialmente il nuovo codice rimanga in prevalenza nel solco della tradizionale impostazione del processo secondo il rapporto sinallagmatico reato – pena.

 

 

 

 

 

                Il processo resta pur sempre configurato, in via generale, come lo strumento istituzionale per la applicazione di una sanzione correlata al fatto – reato, a difesa del principio di autorità e di sicurezza sociale, sia pure previo accertamento del fatto secondo un rito più spedito e formalmente più evoluto.

 

 

 

 

 

            Per converso esso non sembra idoneo ad una soluzione umana del problema della devianza, attraverso l’individuazione e l’eliminazione delle cause raccordata all’azione amministrativa statuale complessivamente considerata.

 

 

 

 

 

               Ricollegandomi a quanto già detto in precedenza, mi è spontaneo domandarmi perché nel progetto si sia riservata tanta cura alla osservazione scientifica del condannato – e non pure dell’imputato – per rilevarne le carenze fisiopsichiche, affettive, educative e sociali, nonché le altre cause del disadattamento sociale (artt. 13 dell’ordinamento penitenziario e 27 del regolamento di esecuzione).

 

 

 

 

 

                Seppure avvedutamente nel progetto non è riprodotto il divieto di indagini peritali sul carattere e la personalità dell’imputato e in genere sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (previsto nell’art. 314 capoverso del vigente codice), è sintomatico che in esso non figuri per l’imputato una norma analoga a quella sopra menzionata relativa alla osservazione scientifica della personalità, previsione che sarebbe stata opportuna e necessaria, quanto meno come affermazione di un nuovo principio in relazione al tradizionale divieto ora ricordato.

 

              Quale considerazione possiamo trarre da tale omissione?

 

 

 

 

 

              Mi viene il dubbio che nel progetto campeggi ancora in primo piano soprattutto l’intervento repressivo, piuttosto che quello preventivo.

 

 

 

 

 

               L’osservazione della personalità e il conseguente trattamento rieducativo tendente al riadattamento sociale non è ancora metodologia primaria del processo penale.

 

               Né una evoluzione in tale senso può con certezza ravvisarsi nell’art. 194 del progetto – che consente di derogare al generale divieto della testimonianza sulla moralità dell’imputato limitatamente ai fatti specifici idonei a qualificarne la personalità in relazione al reato e alla capacità a delinquere.

 

              Tale norma, in verità restrittiva, riproduce infatti l’art. 348 del vigente codice, nel quale sussiste il menzionato principio dell’inammissibilità della perizia sulla personalità.

 

 

 

 

 

               Dobbiamo pertanto concludere che ancora non si intende prestare all’imputato, sotto il profilo considerato, la stessa attenzione dimostrata per il condannato e che ancora prevale la tendenza a mediare la finalità rieducativa attraverso il filtro della pena.

 

               Mi sembra pertanto che si stia perdendo una magnifica occasione evolutiva!

 

 

 

 

 

                Vorrei in proposito ricordare che l’art. 7 del progetto preliminare delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni prevede – peraltro nella scia degli artt. 8 e 11 del vigente R.D.L. 20.7.1934 n. 1404 sull’istituzione e il funzionamento del Tribunale per i minorenni – che il P.M. e il giudice acquisiscono elementi circa le “ condizioni e le risorse personali, familiari, socio – ambientali del minore al fine di valutare la rilevanza sociale del fatto, di compiere le prescritte valutazioni circa la sua condotta futura e di disporre le adeguate misure penali e, inoltre, che è sempre consentito al P.M. e al giudice di assumere informazioni e sentire pareri di altre persone che abbiano avuto rapporti significativi con il minore”.

 

 

 

 

 

               La mancata riproduzione per gli imputati maggiorenni della stessa disciplina acquista pertanto univoco significato negativo in relazione al problema della rieducazione e del riadattamento sociale dell’imputato.

 

IMPROCEDIBILITÀ DELL’AZIONE PENALE PER ESITO POSITIVO DELLA PROVA DI SOCIALIZZAZIONE

 

          Al riguardo vorrei riflettere su un importante istituto previsto nel progetto delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, che con opportuni adattamenti potrebbe essere esteso in via generale al processo penale nei confronti degli imputati maggiorenni.

         Mi riferisco alla pronuncia di improcedibilità dell’azione penale per fatti tenui ed occasionali quando “l’ulteriore corso del procedimento non risponde ad esigenze educative e a quelle di tutela della collettività” (art. 23 del progetto); mi riferisco alla facoltà del giudice, “sia nell’udienza preliminare, sia nel dibattimento” di “disporre la sospensione del processo per un periodo non superiore ad un anno, quando ritiene di meglio valutare la personalità del minorenne o di verificarne la capacità di superare le difficoltà di socializzazione”, affidandolo ai servizi minorili della amministrazione della giustizia “per lo svolgimento delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno” e impartendo “prescrizioni aventi a oggetto attività conciliative e dirette a riparare le conseguenze del reato”; mi riferisco alla facoltà del giudice, decorso tale periodo di sospensione, di dichiarare non doversi procedere, per esito positivo della prova.

            L’istituto in discorso – implicante una radicale inversione del tradizionale approccio punitivo – potrebbe costituire un formidabile strumento di portata generale per adeguare la “risposta” statuale alle effettive necessità dell’uomo e a finalità rieducative senza intermediazione della sanzione.

 

LA CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE

            Desidero ancora soffermare la mia attenzione sulla durata massima della custodia cautelare in carcere (direttiva n. 61 della legge delega e art. 303 del progetto relativo);

sebbene i termini della sua durata massima per ciascuna fase processuale appaiano ridotti rispetto alla vigente disciplina, non mi sembra che la previsione della sua durata complessiva (due anni quando si procede per un delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni; quattro anni per delitti puniti con la reclusine superiore nel massimo a sei anni) sia compatibile con il principio di presunzione di innocenza garantito dall’art. 27 della Costituzione e dell’art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU. Mi pare che l’alternativa logica sia la seguente: o lo Stato è in grado di corrispondere al diritto della persona ad essere giudicata in un termine ragionevole, secondo gli artt. 5 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, oppure deve porla in libertà, non essendo tollerabile supplire a disfunzioni amministrative strutturali o funzionali mediante il sacrificio di tale imprescindibile diritto.

 

ARRESTO IN FLAGRANZA, FACOLTATIVO O OBBLIGATORIO

Il progetto agli artt. 378 e 379 riproduce gli istituti dell’arresto in flagranza obbligatorio o facoltativo con taluni temperamenti rispetto alla attuale disciplina (artt. 235 e 236 c. p. p.)

In flagranza di reato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a venti e di altri delitti predeterminati, l’arresto è obbligatorio; per i delitti punibili con la reclusione superiore nel massimo a tre anni e per altri reati tassativamente indicati l’arresto è consentito soltanto se la misura è giustificata dalle circostanze del fatto o dalla pericolosità del soggetto, formula nuova rispetto alla corrispondente norma del vigente codice, che fa riferimento, quale regola per l’esercizio della facoltà d’arresto, alle “qualità morali della persona” e alle “circostanze del fatto”. Mi chiedo se i tempi non siano maturi per espellere dal contesto normativo l’istituto dell’arresto obbligatorio in flagranza che, essendo fondato su una valutazione legale predeterminata in via generale, rischia di essere inadeguato alla situazione reale.

Non mi sembra possa efficacemente obiettarsi che si tratta di un provvedimento provvisorio destinato ad essere vagliato dal giudice entro pochi giorni in quanto la libertà personale è prerogativa imprescindibile che non tollera compressioni, anche di minima durata, non obiettivamente giustificate.

D’altra parte occorre meditare che l’art. 13 del progetto delle disposizioni sul processo a carico dei minorenni, è previsto esclusivamente l’esercizio facoltativo dell’arresto in flagranza.

 

FERMO (art. 382 del progetto; art. 238 c.p.p. vigente)

        Per quanto riguarda il fermo di indiziato di delitto può rilevarsi, positivamente, oltre che un minore rigore, quoad poena – non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni di reclusione, anzi che pena non inferiore nel massimo a sei anni secondo l’attuale assetto normativo – una modificazione nella formulazione dei requisiti: “gravi indizi di colpevolezza” anzi che “sufficienti”, “fondato pericolo” anzi che “fondato sospetto”.

 

MISURE COERCITIVE PERSONALI

          Deve essere segnalata positivamente anche l’abolizione del principio della cattura obbligatoria previsto dall’art. 253 del vigente codice di procedura.

       La materia risulta integralmente rinnovata negli artt. 272 e seguenti del progetto; non sono previste ipotesi di obbligatorietà di mandato di cattura e la custodia cautelare in carcere ha carattere residuale, essendo subordinata alle seguenti condizioni:

 

1. Gravi indizi di colpevolezza (non più indizi “sufficienti”);

 

2.  inderogabili esigenze attinenti alle indagini in relazione a specifiche situazioni di concreto pericolo per l’acquisizione e la genuinità delle prove;

 

3. fuga dell’imputato o concreto pericolo di fuga se per il reato possa essere irrogata una pena superiore a due anni;

 

 4. concreto pericolo – per specifiche modalità o circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato – che questi commetta gravi delitti della stessa indole di quelli per cui si procede o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale o gravi delitti di criminalità organizzata;

 

 5. divieto di disporre la custodia cautelare in carcere quanto con applicazione di altre misure di coercizione personale (obbligo o divieto di dimora, divieto di espatrio, arresti domiciliari) possano adeguatamente essere soddisfatte le esigenze cautelari;

 

 6. divieto di misure di coercizione personale se il reato per il quale si procede è punito con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni.

 

 

            L’istituto in discorso comporta pertanto un passo avanti rispetto alla vigente disciplina.

           

          Vorrei infine rilevare l’opportunità di un riesame della materia delle sanzioni sostitutive delle pene detentive (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria su richiesta dell’imputato).

 

          L’eliminazione o l’attenuazione del rigore di vincoli e di condizioni oggettive e soggettive di ammissibilità potrebbe costituire per un giudice profondo conoscitore dell’uomo un eccezionale strumento di riadattamento più efficace rispetto alle misure alternative alla detenzione che possono concedersi al condannato (regime di semilibertà, liberazione anticipata, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare).

 

 

           Concludendo questa mia valutazione necessariamente sommaria del progetto, vorrei rilevare che il processo penale non deve essere il dibattito sull’applicazione o non applicazione della pena, bensì l’accertamento delle cause interferenti sul fenomeno reato e della personalità del suo autore al fine di appropriati interventi preordinati alla elisione della devianza e deve inserirsi nell’ambito di una politica generale statuale rivolta a condizioni di giustizia reale.

 

        Deve essere assolutamente fugata la tentazione di arginare gli effetti degli squilibri sociali attraverso l’intervento penale e penitenziale.

         Si deve necessariamente meditare sull’art. 97 della Costituzione nella parte in cui fa riferimento al buon andamento e all’imparzialità dell’attività amministrativa.

 

 

     La giustizia inerisce complessivamente allo Stato e specificamente a ogni singola amministrazione preposta alla cura di specifici interessi collettivi e potrà intendersi attuata

solo se lo Stato assolva all’onere di rimuovere gli ostacoli di diversa natura che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

       Deve pertanto invertirsi il tradizionale rapporto tra amministrazione giudiziaria e le amministrazioni cosiddette attive, attribuendo alla prima la funzione complementare di intervenire, laddove le altre abbiano fallito.

 

 

      Giustizia è soprattutto assolvere alla funzione statuale, tutelando effettivamente e dignitosamente i diritti umani imprescindibili, quanto meno nella misura in cui sono stati riconosciuti a livello internazionale.

 

       Secondo tali superiori valori puntualizzare l’intervento dello Stato, attraverso l’amministrazione giudiziaria, in prevalenza sulla pena, è contraddittorio con le sue finalità istituzionali.

 

 

          Se veramente lo Stato, attraverso la coagulazione di interessi collettivi, deve essere espressione della loro tutela, un intervento preoccupato prevalentemente della difesa sociale, è denegazione di giustizia sotto la parvenza della legalità.

           Indubbiamente, soprattutto in brevi e medi periodi di tempo, non può essere disconosciuta l’esigenza di difesa rispetto a coloro che attentano ai valori recepiti dalla legislazione positiva e potrebbe pertanto essere spontaneo definire utopistica la aspirazione ad alterare l’approccio statuale tradizionale, caratterizzato appunto dal meccanismo stimolo – risposta.

 

 

          Comunque, poiché la ragione impone la soluzione dei problemi sociali in modo radicale, ancorché comportino lunghi periodi di tempo, se lo Stato non vuole mancare alla sua funzione di fronte al fenomeno della devianza, deve essere pronto a dirompere gli schemi tradizionali, rifondando radicalmente la materia.

 

 

             Riteniamo che lo studio dei meccanismi cerebrali umani elaborati dal professor Trimarchi nella teoria sulla “Lateralizzazione degli emisferi cerebrali” possa costituire la base per la soluzione del problema conforme a giustizia; se riusciamo a comprendere perfettamente le funzioni cerebrali e adeguiamo, una volta per tutte, ad esse le legislazioni penali, veramente il sistema giudiziario potrà essere degno di tale nome non essendo tollerabile l’ingiustizia sotto forma di legittimità.

 

 

                 Il primo obiettivo che ci si deve porre in una organizzazione statuale è la promozione della coscienza, che deve essere assunta non solo come valore di relazione fra più individui e quindi come presa d’atto della coesistenza di altri soggetti, aventi identiche prerogative naturali, ma soprattutto come acquisizione di una profonda conoscenza di sé.

 

              Se, attraverso interventi capillari di tutto l’apparato dello Stato in ogni branca della pubblica amministrazione e soprattutto di quella istituzionale per la cultura, si riuscirà a divulgare le nozioni di base dei meccanismi della percezione, potrà pervenirsi alla spiegazione del comportamento umano ed alla prevenzione della devianza.

 

 

         Il Professor Trimarchi nei suoi scritti ha evidenziato quali siano le conseguenze di una disconnessione cerebrale.

            Probabilmente, alterando l’impostazione tradizionale delle categorie di infermità, malattia e sanità, potrebbe essere individuata proprio in tale sindrome una delle cause dei comportamenti devianti.

         Occorre pertanto agire direttamente sull’uomo non già attraverso il meccanismo della punizione, ma favorendone la presa di coscienza che forse è l’unica formula radicale per l’impostazione scientifica del problema della devianza.

 

 

          Punire non serve laddove persistano le cause che hanno dato luogo alla devianza, che non smetteranno di operare, come l’esperienza concreta dimostra, qualunque deterrente punitivo si escogiti.

          Oltretutto, a ben guardare, un intervento radicale sull’uomo, oltre che più adeguato alla sua dignità, risulterebbe anche più economico e funzionale.

 

 

           Lo sviluppo della coscienza a tutti i livelli, a livello di azione individuale, ma soprattutto a quello politico, istituzionale, costituirebbe la base per una società in cui ciascuno sia giudice di sé stesso, senza necessità di mezzi di coazione.

 

 

           Una società senza giudici, obiettivo finale di questo processo, non è un’utopia, perché ciascuno di noi, nella misura in cui sarà edotto dei suoi meccanismi cerebrali, potrà opportunamente intervenire su sé stesso; opportunamente, sotto il profilo lessicale si distingue tra gli aggettivi “utopico” e “utopista”, essendo il secondo suscettibile di realizzazione.

        L’emersione della coscienza a livello politico – istituzionale consentirà interventi effettivamente conformi alla fisiologia umana, piuttosto che ad interessi di parte o comunque individualizzati, favorendo la rimozione di ogni ostacolo economico, sociale o di altra natura, che di fatto sia esca alla violenza, quanto meno creando occasioni favorevoli.

 

 

           Smettiamola una volta per tutte di parlare di pena, come intervento istituzionale dell’apparato giudiziario, e puntualizziamo la nostra attenzione e i nostri sforzi su misure preventive radicali, finalizzate all’uomo, punto di partenza e di arrivo di ogni studio.

 

 

           L’obiettivo del diritto penale processuale e sostanziale non può ridursi in prevalenza alla difesa della società rispetto a chi abbia rotto gli schemi convenzionali positivi, bensì è la promozione di tutte quelle infinite potenzialità dell’essere umano, sufficienti, ove adeguatamente instradate, a garantire, sia pure attraverso un faticoso cammino, un’armoniosa convivenza.

 

           

           Questa è la strada che dobbiamo seguire se vogliamo riscattare gli uomini dal ruolo di “ratti” che, schiavi del piacere o del dolore, siano condizionati nella loro azione da emozioni piacevoli o spiacevoli, senza altra gratificazione che l’esperienza dello stimolo stesso, secondo riflessi condizionati che non lasciano spazio ad un apprendimento cosciente.

 

 

          Questa è la strada da percorrere se non vogliamo che il processo penale si risolva in una rappresentazione di tragedie umane sovrapposta a verità e giustizia.

             Se il rito del processo si ammanta tradizionalmente di elementi scenici – quali la toga, il tocco, la parrucca, a seconda degli usi – e si svolge in luoghi e in tempi rigorosamente disciplinati, non deve avvenire che l’”artificio” soffochi la realtà.

 

 

              Ci avviamo – quale fase di transizione per l’auspicata società in cui ciascuno sia giudice di sé stesso – ad una nuova cultura in cui il giudice è al contempo nazionale e internazionale

in un nuovo assetto di diritto comune.

 

 

          Gli strumenti a cui dobbiamo prestare particolare attenzione sono gli artt. 10 e 11 della Costituzione, secondo i quali l’ordinamento giuridico nazionale si conforma alle norma del diritto internazionale generalmente riconosciute e consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni.

 

 

           È ormai realtà il principio della immediata e diretta applicazione da parte dei giudici italiani dei regolamenti comunitari CEE, non soltanto quando seguano, ma anche quando precedano nel tempo la legge ordinaria con essi incompatibile.

 

 

           Concludo questa mia relazione accogliendo il messaggio formulato nel preambolo del patto internazionale dell’ONU sui diritti economici, sociali e culturali, della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali: la giustizia e la pace nel mondo si fondano essenzialmente su un regime politico veramente democratico e su una concezione comune e un comune rispetto dei diritti dell’uomo e l’ideale dell’essere umano, che goda della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengano create condizioni che permettano ad ognuno di godere dei propri diritti economici, sociali e culturali.

 

 

 

 

 

             La passione dell’amico Cigliano e la sua profonda sensibilità in ordine ai diritti umani ci ha rappresentato una società che noi auspicheremmo realizzabile, però purtroppo credo un po’ lontana da quella che è la realtà attuale.

             D’altra parte penso che la lotta tra bene e male, giusto e ingiusto nella natura dell’uomo sia ineliminabile.

 

 

           Forse questa lotta è anche una parte stimolante dell’evoluzione dell’uomo poiché in realtà, attraverso il conflitto, l’impegno, il confronto deciso e l’intervento anche della sanzione per ristabilire determinate regole, si permette una certa evoluzione purché appunto ci sia quel rispetto che faccia sì che la sanzione venga vista come momento anche di formazione.

 

 

            A Michele Trimarchi, che è il Presidente del Centro studi per l’Evoluzione Umana e che ha già provocato dibattiti di estremo interesse – sta effettuando con il Centro ricerche molto importanti proprio sotto il profilo dell’imputabilità, anzi il nostro dialogo è nato proprio intorno all’imputabilità che è uno dei concetti che oggi, al vaglio di una società profondamente diversificata, pone anche problemi estremamente delicati – il compito di chiudere questo primo giro.

 

LA CENTRALITÀ DELL’UOMO NEL DIRITTO PENALE

 

 

Michele TRIMARCHI

Presidente del C.E.U.

 

 

             Il discorso, come abbiamo sentito, si fa sempre più caldo e gradualmente stiamo entrando nel vivo dell’argomento della nostra trattazione.

 

            È assai difficile, purtroppo, considerare l’uomo protagonista della propria esistenza in un mondo politico, economico e culturale dove la competitività porta alla inevitabile discriminazione con la vittoria del più forte sul più debole e con la discriminazione delle minoranze in favore delle maggioranze.

 

 

             Può una siffatta società porre l’uomo al centro del suo processo evolutivo?

 

          E’ possibile oggi, all’interno del diritto penale, affermare l’imperativo dell’uomo invece che della legge?

 

 

               Eppure l’uomo crea le leggi e ne subisce poi l’azione coercitiva.

 

         In tutto ciò si riscontra certamente il paradosso per eccellenza in quanto nessun uomo creerebbe una legge che lo possa privare, nel tempo e nello spazio, della sua libertà.

 

 

            A questo punto c’è da chiedersi se è l’uomo che crea le leggi o se esse preesistono alla sua presa di coscienza per cui è inevitabile che egli ne prenda coscienza e le applichi per regolare il rapporto tra gli uomini, formando così una società che gradualmente evolve il proprio status di individui umani nel rispetto dell’universalità delle leggi fisiche che regolano tutto l’ecosistema.

 

 

         In queste poche parole si racchiudono le meraviglie di un mondo che al Centro studi per l’Evoluzione Umana stiamo tentando di comprendere con un approccio scientifico multidisciplinare dopo aver posto con un postulato di base l’uomo nel suo rapporto con l’ambiente al punto di convergenza di tutti i nostri studi e ricerche.

 

 

          Sembra che i tempi siano ormai maturi per applicare tale metodo in campo politico, economico e sociale come soluzione possibile all’ ”epidemia” di problemi che invade gradualmente tutto l’ecosistema umano.

 

 

               La centralità dell’uomo, quindi, va sempre e comunque considerata poiché se escludiamo il fatto che gli effetti di ogni azione pubblica o privata ricadono sull’uomo, sulla società e non ultimo sull’ambiente, ci ritroviamo nel caos più completo.

 

 

          Analizzando i vari aspetti politici e culturali nonché i principi regolatori delle leggi nazionali ed internazionali, notiamo una forte dicotomia tra il momento di affermazione ideologica e l’applicazione pratica: vi è cioè un’enorme difficoltà di decodificazione sociale di quei valori che, se realizzati, renderebbero tutti partecipi cooperativamente di un’armonia sociale.

 

 

           Quanta strada dobbiamo ancora percorrere prima di iniziare l’ascesa verso una identificazione “anatomica” e fisiologica dei vari momenti della vita dell’uomo, per cui siamo ancora in una fase evolutiva in cui prediligiamo la visione macroscopica dei fenomeni e poco entriamo nella sostanza e nel dinamismo di quel mondo microscopico che poi, di fatto, viene violentato al punto tale da dar vita ad un mondo di sofferenza, angoscia, tensioni, drammi.

             

 

            In sintesi, viviamo in un momento storico in cui vige la negazione pressoché totale della dignità umana nonché della sofferenza intesa come momento liberatorio di una violenza discriminante l’autodeterminazione dell’individuo nella sua realtà fisiologica.

 

 

           Abbiamo più volte affermato che ci sono vari aspetti della sofferenza (fisica, psichica, spirituale) e nessuno di essi può essere discriminato soprattutto da parte dello Stato, che deve tutelare e garantire lo sviluppo armonico dell’individuo all’interno della società.

 

 

 

                Grandi e gravi sono le responsabilità della scienza nel non aver affrontato adeguatamente lo studio sistematico dei processi fisiologici che inducono tali sofferenze.

 

            Questa scienza – quasi totalmente asservita alle richieste delle industrie nonché al denaro come strumento di soddisfazione delle ambizioni personali – nega a priori lo scopo fondamentale e l’esistenza della scienza stessa, all’interno di una società democratica.

 

 

               La scienza deve porsi a totale servizio dell’uomo per confermare l’ovvietà della vita in tutte le sue manifestazioni.

         

 

          Essa non può sostituirsi ai processi naturali e semmai deve creare le condizioni per consentirne l’armonico sviluppo.

 

 

           Osservare ed integrare, gettando ponti di comunicazione tra le varie discipline, diventa il metodo di approccio a tutte le problematiche esistenti.

 

                Un’osservazione macroscopica di questo momento storico pone in evidenza che le società

 

 

contemporanee necessitano sempre più di ospedali, tribunali, carceri, case di cura, di prevenzione, di correzione.

         Ciò dimostra inequivocabilmente l’incipienza galoppante di una società malata a tutti i livelli sociali ed ambientali.

 

 

 

           L’organismo Terra subisce giorno per giorno lacerazioni profonde – provocate dai vari sistemi politici competitivi – che il “medico naturale” non è più capace di curare.

 

 

           Le armi utilizzate sono la manipolazione chimica, genetica, biologica, psicologica.

 

          Ricordiamoci che l’uso improprio di tali strumenti distrugge quanto di più bello l’evoluzione umana è riuscita a realizzare.

 

 

           Per converso gli stessi strumenti potrebbero creare vita e trasformare situazioni già alterate.

 

        Ecco perché, se vogliamo affrontare veramente e concretamente i problemi umani, dobbiamo considerare la centralità dell’uomo non solo a livello biologico ma a livello di coscienza individuale nel suo divenire, onde dar vita ad una società capace di ridurre sempre più la spesa per la costruzione di ospedali, tribunali, carceri, ed incrementare quei servizi utili a potenziare l’espressione creativa della genialità umana nel rispetto di quegli spazi “riservati” agli altri.

 

       Attivando questo processo di trasformazione, vedremo la funzione pubblica “amata” dal cittadino, che la considererà potenziamento del proprio agire e del proprio divenire.

 

 

          Quanto detto è legittimato dai nostri studi integrati che, nell’analisi bio – psico – fisiologica dell’uomo e, soprattutto, nello studio integrato delle funzioni superiori del cervello umano, ci hanno permesso di eliminare tanti dubbi ed incertezze sull’uomo e la sua evoluzione.

 

 

           Possiamo assicurare che tali conoscenze diventano un vero trauma nel momento in cui sono la misura delle devianze, delle patologie, delle discriminazioni in quanto l’analisi neuropsicofisiologica del comportamento ci mostra come comportamenti considerati normali contengono germi “patogeni”; per converso, comportamenti considerati devianti sono, di fatto, corretti alle funzioni fisiologiche.

       Come dire che le nostre società prediligono i furbi e non gli onesti, apprezzando temporalmente la forma e non la sostanza del dinamico sviluppo mentale.

 

 

         Quel che è peggio è che le strutture pubbliche non favoriscono e non sono in grado di comprendere la natura umana e per tale ragione l’uomo non si sente compreso e si ribella gettando panico nelle nostre società e nell’ambiente.

 

 

            La chiave per comprendere tutto ciò è in una totale inversione di rotta dell’educazione, poiché non si educa ma si condiziona, si limita, si soffoca l’essere umano fin dalla nascita e di conseguenza la sua natura entra in conflitto e genera a cascata una miriade di comportamenti che spingono lo Stato a fare leggi sempre più punitive, creando così un “diabolico serpente” che porta l’uomo a “combattere” lo Stato.

 

           E’ un braccio di ferro tra Stato e cittadino, che impedisce l’armonizzazione della società e limita l’evoluzione umana.

 

 

          L’uomo non conosce ancora sé stesso e giudica gli altri, decide per gli altri.

 

       Pur comprendendo la necessità di controllare l’attività umana all’interno di una società, non bisogna dimenticare che la vita sociale ha un senso laddove tutti i partecipanti si riconoscono nei principi regolatori della società stessa.

 

 

           Quanto l’essere umano si riconosce nella propria società?

 

           Abbiamo detto che l’essere è in divenire, che il cervello è una realtà plastica e che in base alle

plastica e che in base alle sue pulsioni genetiche è disponibile ad armonizzare con gli altri: ma se ciò non accade di chi è la responsabilità?

 

 

        Dell’uomo della strada, del cittadino o di coloro che decidono la vita e la morte dell’essere umano?

 

 

            Nessuno è legittimato a giudicare gli altri se prima non ha giudicato sé stesso.

 

 

           Mai come in questo momento mancano gli esempi.

 

 

       Si discrimina il bambino, l’anziano, gli esseri deboli della società che, invece, andrebbero protetti, curati, amati.

 

 

         Il vero senso di una società moderna e democratica lo si ritrova in una concettualità che implica di per sé giustizia per tutti i cittadini.

            Quale giustizia riconosce l’uomo , il cittadino?

 

 

          Strano a dirsi, ma in queste nostre società vince sempre il “più forte”.

 

 

         La vera forza non è quella della conoscenza, della saggezza, ma è quella del denaro e quella che lo Stato riconosce alla funzione pubblica che troppo spesso è priva delle competenze e di quella umanità che dovrebbero essere gli unici attributi che possono giustificare la stessa funzione pubblica.

 

 

         Discutiamo qui del nuovo processo penale con l’intento di giustificare l’evoluzione del diritto verso un miglioramento qualitativo del rapporto pena – incremento della qualità della vita.

       Eppure tutti sappiamo quanti drammi, quante triturazioni di coscienza si consumano ogni giorno nei tribunali.

         Bambini che vengono strappati ai genitori da un giudice che ignora l’immensità di un rapporto genitori – figli che, per quanto possa essere alterato, troverà sempre nelle fondamenta un amore profondo; uomini “onesti” che nella confusione sociale commettono reati senza rendersene conto, poiché le leggi non sono chiare e non alla portata di tutti.

 

 

        Se si applicasse il rinnovato art. 5 del Codice Penale avremmo, senza esagerazione, l’assoluzione della maggior parte degli imputati e, di conseguenza, sarebbero lo Stato e le istituzioni pubbliche ad essere incriminati.

 

 

              Migliorare il rapporto tra Stato e cittadini deve essere l’imperativo delle funzioni pubbliche, soprattutto per quanto riguarda la “giustizia”.

 

 

            Troppo spesso si scatena violenza tra forze dell’ordine, autorità giudiziaria e i cittadini.

         

 

          Perché tutto ciò?

 

 

            Se è vero che lo Stato tutela e garantisce i diritti dell’uomo, la salute pubblica, ecc., perché la

perché la maggior parte degli uomini teme e combatte le istituzioni?

 

           Sono questi gli argomenti da trattare al fine di trarre profitto dall’esperienza che tutti viviamo quotidianamente.

 

 

          È auspicabile che la polizia e i carabinieri, giudici e tribunali, diventino realmente strumenti di difesa dei valori fondamentali della vita e, soprattutto, dobbiamo auspicarci che l’onestà degli uomini possa utilizzare tali strumenti con una forma di cooperazione atta a far evolvere e armonizzare la società.

 

 

        Le potenzialità inespresse dell’uomo rimangono latenti finché stimoli esterni, sociali ed ambientali, non ne favoriscono l’espressione.

 

 

          Infatti, dai nostri studi è emerso che l’individuo esprime meno del dieci per cento delle sue reali potenzialità, proprio perché le nostre società, con i programmi politici culturali ed educativi, impediscono la creatività, costringendo i cervelli a ripetere per tutta la vita tali programmi.

 

 

          Si genera così un conflitto tra potenzialità soffocate e represse e “programmi” memorizzati, conflitto che dà vita così allo squilibrio sociale e alla degenerazione del tessuto umano.

 

 

          Rendiamoci conto che l’uomo deve evolversi verso l’espressione delle potenzialità represse e ciò è possibile solo se si sviluppa una politica democratica che concretamente promuova la realizzazione dell’uomo all’interno del suo habitat ecologico e sociale.

 

 

          Considerato il fatto che lo scopo principale dello Stato è realizzare nel tempo e nello spazio i principi costituzionali (e per realizzazione si intende che ogni cittadino si formi una coscienza sulla base di tali principi e agisca di conseguenza con un ordine dinamico che lo renda protagonista attivo e cooperativo all’interno della società), dobbiamo educare l’uomo affinché tutto ciò si verifichi.

 

              Di conseguenza ci sentiamo legittimati ad affermare categoricamente:

 

 

  1. che la globalità dell’uomo trascende l’attuale comprensione da parte della funzione pubblica, per cui nessun reato commesso dall’uomo sarà mai tanto grave da legittimare il non rispetto dell’essere umano nella sua dignità: “combattere” le azioni dell’uomo, ma mai l’uomo;
  2. che la scienza del diritto deve porsi come obiettivo principale la comprensione dell’uomo in tutti i suoi aspetti filogenetici ed ontogenetici, affinché le leggi promulgate favoriscano, educando, l’espressione delle potenzialità umane;
  3. dato che una società democratica delega i propri poteri alle funzioni pubbliche, nessun uomo che esercita tali funzioni, può andare oltre i poteri conferitigli dai cittadini, tenendo sempre presente che egli viene “onorato” da tale delega, e che le aspettative dei cittadini non devono essere disattese: pena, la revoca immediata del mandato o della delega;
  4. dato che tutti i cittadini devono essere uguali davanti alla legge, vanno create leggi capaci di individuare nel tempo e nello spazio la diversità fisiologica dell’uomo e della donna, senza limitazioni alle loro libertà fondamentali che variano in tutto l’arco della loro esistenza, dalla nascita alla morte. La libertà, infatti, in base alle funzioni fisiologiche del cervello umano, è direttamente proporzionale allo sviluppo biologico e psicologico dell'individuo.

 

 

 

           I diritti e i doveri dell’uomo devono amplificarsi di pari passo con la crescita globale dell’individuo stesso.

 

 

               Tale processo richiederebbe un’educazione appropriata e ci auguriamo che ciò accada al più presto, in quanto il diritto penale agisce proprio quando fallisce l’educazione e la sua azione dovrebbe compensare il deficit educativo.

 

 

            Educazione e pena quindi sono inversamente proporzionali: ad una maggiore educazione corrisponde una minore commissione di reati penali.

            Ciò legittima l’art. 27 della Costituzione che al terzo comma così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

 

 

         La centralità dell’uomo, dunque, nel processo penale emerge in modo eclatante in quanto il reato penale di per sé è una forma di denuncia pubblica del cittadino e, allo stesso tempo, dello Stato poiché, come abbiamo detto, la commissione del reato penale è inversamente proporzionale all’educazione ricevuta.

 

 

          L’educazione spetta allo Stato, che la garantisce con l’art. 30 della Costituzione, per cui laddove l’individuo commette reati penali si dovrebbe innescare un processo di analisi profonda da parte dello Stato per intervenire in maniera concreta in campo educativo onde prevenire la commissione dei reati stessi.

 

 

       La Costituzione, dunque, legittima la proclamazione della centralità dell’uomo dal concepimento alla “morte” e in maniera inequivocabile nelle fasi processuali penali.

 

 

          Nel processo penale, infatti, troppo spesso scompare l’uomo ed appare purtroppo la criminalizzazione dell’uomo stesso da parte, non solo delle funzioni pubbliche, ma anche dei cittadini disinformati dai media (che sono troppo spesso alla ricerca di scoop giornalistici piuttosto che di informazioni utili ad informare le coscienze sull’andamento della società).

 

 

 

           Concludo affermando che questo nostro Convegno è rivolto innanzi tutto a coloro che all’interno della giustizia hanno le responsabilità costituzionali di tutelare e difendere non solo la dignità della legge ma anche e soprattutto quella dell’uomo, poiché in lui si materializza un mondo invisibile di cui ancora non abbiamo piena coscienza, poiché l’essere è in divenire.

 

 

           La commissione di reati penali non abolisce il diritto di evolversi, semmai conferma l’evoluzione in atto, non solo della persona ma dell’intera umanità.

 

 

               E se oggi ci troviamo qui riuniti per proclamare la centralità dell’uomo, è segno evidente che l’evoluzione ci porta per mano verso una dimensione in cui tutti potremmo definirci uomini all’interno di un Universo che senza stancarci guida i nostri passi.

 

 

             Il giorno in cui l’uomo giudice “piangerà” per dover infliggere una pena, ebbene egli non sarà più un “giudice” ma sarà un uomo.

 

 

 

 

 

 

             Ringrazio il Prof. Trimarchi per la prospettazione molto interessante che ci ha fatto e che ci aiuta anche a capire meglio noi stessi.

 

              Vorrei osservare che il giudizio non deve mai essere globale.

 

 

           Cioè il giudizio del processo è un giudizio su un comportamento.

 

 

      Credo che non sarebbe nemmeno giusto, appunto, che il giudice desse una valutazione globale sull’individuo che ha davanti, perché non è compito suo, non avrebbe nemmeno gli strumenti per poterlo fare e questo credo che spetti, naturalmente, ad altri settori dello Stato in ordine ad altri comportamenti, in ordine ad altri momenti di confronto.

 

 

          Ecco perché il raccordo tra le istituzioni e la società civile può dare un supporto all’uomo nei vari momenti della sua vita.

             Il punto che io ritengo molto importante e su cui riflettere e quello che appunto diceva Cigliano e che poi ha ripreso Trimarchi e, mi sembra, lo ha sottolineato anche Guasco, e cioè che in realtà noi spesso diamo troppo valore al precedente, anche nel momento della decisione.

             In moti sistemi, per esempio in Inghilterra, la valutazione della responsabilità avviene senza conoscere il certificato penale.

 

 

             La successiva conoscenza del certificato penale servirà poi a determinare l’entità della pena; il giudizio, però, di colpevolezza viene fatto senza nessun possibile condizionamento, proprio perché la valutazione emerga solo da quel comportamento.

 

 

             La complessità poi dell’uomo è, appunto, come diceva Trimarchi, talmente ampia che noi, come giudici, per poter giudicare l’uomo, dobbiamo liberarci da quei retaggi che ciascuno di noi ha acquisito nei vari momenti della vita. Ora apriamo il dibattito: Felicetti, credo che sia quasi inevitabile che tu faccia un intervento, prego.

 

 

 

Alberto Maria FELICETTI

Presidente del Tribunale dei Minorenni di Roma

 

         Il collega Cigliano ha fatto riferimento alla legge in itinere e cioè al progetto di legge sulla riforma del processo minorile che pone dei principi nuovi e che apre delle strade veramente rivoluzionarie per certi versi.

            E’ stato messo in evidenza che nel bambino c’è l’uomo, nell’uomo c’è il bambino.

      

            Così dicono anche gli psicanalisti, per cui tutto ciò è pacifico.

 

 

           Non v’è dubbio che ciò che riguarda misure nei confronti del minore riguarda di fatto l’uomo.

 

    Mettere il minore al centro delle cure della società significa mettere l’uomo al centro dell’attenzione sociale.

         Un modesto operatore di un carcere romano, nel vedere in prigione alcuni giovani adulti, 25 – 30 – 35 anni, diceva: “Quelli, quando io operavo ai minori, erano tutti ospiti delle carceri minorili”.

 

 

        Quindi non vi è dubbio che la centralità dell’uomo consiste innanzi tutto nella centralità del minore.

 

 

           Quando si entra in un vivaio, per esempio, o in un luogo dove si allevano dei piccoli animali, ci si preoccupa che le piante siano ben curate perché possano crescere bene e che lo stesso accada agli animali.

         Ma quando si tratta dell’ambiente umano avvengono delle cose veramente incredibili.

 

 

           Dei minori ci si dimentica.

 

 

         I minori, che dovrebbero ricevere l’attenzione ed essere anche la speranza della società, sono spesso coloro che subiscono le violenze, gli abusi.

           Mi riferisco non soltanto alle violenze più evidenti, più facilmente rilevabili dai mass – media, ma a quelle violenze sottili che si consumano nell’ambito delle famiglie, spesso molto chiuse e impenetrabili.

 

 

          Mentre da un lato si proclamano i diritti del fanciullo – nel 1924, 5 articoli, nel 1959 la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ed oggi in itinere, pronta per essere portata dinnanzi all’Assemblea dell’ONU, una nuova dichiarazione dei diritti dell’infanzia – dall’altro questi diritti vengono trascurati e violati.

 

 

          Noi giudici, quindi, ci troviamo di fronte ad una vera e propria contraddizione.

       Ci accorgiamo – soprattutto i giudici minorili – che un minore è abusato fin dalla nascita, è trascurato, subisce umiliazioni,traumi che sono talvolta irreversibili nella sua personalità.

 

 

          Poi, quando ha raggiunto il 14mo anno ci rendiamo conto che esistono gravi manifestazioni di devianza e non facciamo niente.

          Non abbiamo fatto nulla prima e poco facciamo dopo: soltanto quando il minore ha superato i limiti di tollerabilità sociale, quando cioè ha commesso il reato, ci accorgiamo di lui.

         Allora scattano i meccanismi di difesa sociale – in un modo che non è certamente portatore di speranza per la società.

 

 

          Ci tengo a sottolineare come il nuovo processo penale minorile miri ad eliminare almeno in sede penale alcuni grossi squilibri e ad attenuare quel vero e proprio senso di colpa che hanno i giudici che hanno rilevato tutte queste carenze e che debbono applicare una sanzione.

 

          Voglio leggervi quello che ritengo debba essere un modello di processo penale minorile perché poi si possa in un prossimo futuro confrontare con quello che è il risultato di un lungo studio fatto per la riforma di questo processo; riforma che, debbo ricordare, è stata ed è certamente propulsiva anche per il processo penale degli adulti.

 

 

              Secondo me la struttura del processo penale minorile deve essere conforme alla funzione che questo è destinato a svolgere come sistema strumentale di norme adeguate al fine sostanziale che il processo deve perseguire. Deve trattarsi perciò di un sistema di norme la cui tipicità consiste

 

nell’essere rivolta a soggetti in età evolutiva.

 

          Ma chi non è in età evolutiva?

 

 

         Forse anche l’uomo strutturato può avere ancora qualche residuo di immaturità che potrebbe essere presa in considerazione.

 

 

           Il fatto stesso che al Tribunale per i Minorenni, insieme ad una competenza nel settore civile e amministrativo in cui si manifesta in via esclusiva e totale l’esigenza alla tutela del minore, spetti una competenza nel settore penale, rende evidente che l’imperativo della difesa sociale, inderogabile ogni volta che attraverso la violazione della norma penale viene superato il limite di tollerabilità sociale, deve essere sempre associato a quello della tutela del minore.

 

 

          Ne consegue che il fatto reato nella inscindibile connessione dei suoi elementi obiettivi e subiettivi non va considerato unicamente come fenomeno che danneggia o mette in pericolo i beni della collettività, ma soprattutto come sintomo di uno stato di disagio, di intensità variabile, momentaneo o no, in cui il minore si trova nell’ambito della propria famiglia o della comunità in cui vive.

 

 

         In secondo luogo, le misure con cui lo Stato giudice dà una risposta sanzionatoria al comportamento illecito del minore, debbono avere una ben più vasta capacità di recupero di quelle previste per gli adulti, cui fa riferimento l’art. 27, secondo comma, della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.

             Addirittura è opportuno che molte misure sempre considerate in stretta relazione all’entità e alla qualità del disagio del soggetto siano poste al di fuori del circuito penale, cioè del controllo sociale, per entrare nel lambito della protezione esclusiva del minore.

 

 

          Ovviamente ci si riferisce in questo caso a tutte quelle infrazioni che non ledono e non mettono in pericolo in modo rilevante i beni della collettività.

 

 

             Le misure che invece entrano nel circuito penale devono essere facilmente intercambiabili per adattarsi a mutamenti che intervengono – talvolta anche in successione abbastanza rapida – nella personalità del minore, elastiche nel loro contenuto, per conformarsi ad un’inderogabile azione psicopedagogica, diversificate tra loro per permettere la scelta delle più adeguate al caso singolo, secondo un criterio di individuazione del trattamento.

             Devono comunque favorire la reintegrazione del soggetto nel contesto sociale sia attraverso il massimo contatto con questo anche quando si tratta di norme restrittive della libertà personale, sia in modo da consentire che il minore accresca la propria autostima e ottenga la stima degli altri: scuole, lavoro, attività espressive, sport, attività associative.

 

 

           La misura privativa della libertà, soprattutto intesa come detenzione a tempo pieno, deve costituire l’ultima ratio ed essere permeata di tutte le caratteristiche sopra descritte (scuola, formazione professionale, impiego finalizzato del tempo libero, vita associativa, osmosi tra interno ed esterno dell’istituto).

 

 

              Per ultimo, il processo minorile, col suo rito, deve essere di per sé stesso un elemento che si inserisce in modo significativo nella vita del soggetto minore e avere una capacità di accrescimento delle sue potenzialità positive.

              Non deve avere un carattere paternalistico, deve proteggere il minore dalla curiosità altrui e da tutte quelle involuzioni psicologiche che tendono a confermare l’individuo nel suo ruolo antisociale.

            Deve essere infine un fattore responsabilizzante e non viceversa, dimostrando soprattutto al minore di essere portatore degli stessi diritti e degli stessi doveri degli adulti, con la particolarità che questi vanno dal giudice valutati in relazione alla sua personalità in evoluzione e confrontati con la sua maturità.

 

 

             A me sembra che non si possa prescindere in un sistema penale e processuale degli adulti da un sistema penale minorile, che deve considerarsi un modo di esprimere la giustizia nei confronti di chi è in una particolare fase della propria evoluzione e maturazione della propria personalità.

 

 

            Ciò non toglie che anche un processo penale degli adulti deve tener conto dei problemi della personalità che è sempre in itinere, in movimento.

 

 

            Non è possibile creare, secondo me, collega Guasco, una perizia criminologica proprio perché è in una dinamica – che include anche il processo – che deve essere valutata la personalità di ogni soggetto.

 

 

           Mi auguro che alcuni principi, come la sospensione del processo, la non procedibilità nei casi lievi e di occasionalità del fatto, in un sistema come questo, così elastico, così produttivo, di vantaggi in sede penale, possano essere criterio ispiratore anche nel sistema processuale degli adulti, perché ancora una volta, ripeto, non si può parlare di uomo, senza parlare di minore, né di individuo adulto, senza parlare di individuo in itinere, che è appunto il minore stesso. Grazie.

 

 

 

Ringrazio Felicetti che ha un’esperienza in campo minorile veramente preziosa. Ti volevo fare una domanda: “Per quanto riguarda l’imputabilità dei minori, ritieni che le soglie attuali siano ancora valide o no? Visto che oggi i ragazzini sono già molto più evoluti in termini di consapevolezza?”

 

Felicetti:

           Ritengo che le soglie attuali siano ancora valide.

 

 

       Il minore sembra più evoluto, ma in realtà c’è un’immaturità di fondo che si determina e manifesta in maniera diversa.

          Accanto ad un’apparente crescita ed evoluzione c’è qualcosa che ci parla anche di involuzione.

 

          Non credo che sia possibile, in questo momento, spostare questi termini.

 

 

          Caso mai sarà necessario che l’approfondimento tecnico e scientifico sia sempre maggiore.

 

 

Ti ringrazio, ora do la parola al Cons. On. Mario Marino Guadalupi.

 

 

Mario Marino GUADALUPI

Pres. Sez. On. Del Consiglio di Stato

 

 

           Innanzitutto, scusate se penso di poter interpretare un po’ il pensiero unanime delle signore e dei signori nel rivolgere un applaudito ringraziamento a chi con tanta capacità, con tanta lealtà politica, sociale e scientifica ha voluto ospitarci per ascoltare magnifiche relazioni.

 

 

          Ringraziarli non soltanto per quel vincolo di vecchia amicizia che mi lega in particolare al Prof. Trimarchi e alla Sig.ra Papeschi, ma anche all’amico Ministro dei Lavori Pubblici Enrico Ferri al quale ricorderò di essere stato un buon profeta quando alcuni mesi addietro, incrociandolo in un aeroporto, lo incoraggiai a proseguire nella sua vecchia politica.

 

           E credo di essere stato un buon profeta perché se c’è stata, tra le tante scelte ottimali, fatte in questa ultima formazione di governo, una scelta felicissima, è stata anche quella di Enrico Ferri che si è momentaneamente trasferito dall’ufficio di grande magistrato all’ufficio molto impegnativo e responsabile di Ministro dei Lavori Pubblici con una pesante eredità di carattere politico e amministrativo.

 

 

          Un ringraziamento che è soprattutto alimentato dalla mia triplice esperienza.

 

 

        Una prima esperienza che risale al 1940/41, quando eravamo agli inizi della prima applicazione del Codice di Procedura Civile ed io, giovane professionista, praticante procuratore dello studio legale dello scomparso On. Sen. Adone Zoli – amico leale e corretto dell’altrettanto ottimo civilista Piero Calamandrei – frequentai per le prime occasioni il Tribunale di Corte di Appello di Firenze per cominciare a capire come andava applicato il principio della oralità istruttoria nella procedura civile.

 

 

          Questo è un flash per ricordare soprattutto a questi magnifici magistrati presenti, che saluto con la cordialità di chi è diventato poi magistrato amministrativo, le difficoltà che si incontrano anche e soprattutto nei momenti in cui si comincia ad applicare un codice di procedura particolarmente difficile, com’è quello di procedura penale.

 

 

       La seconda esperienza è quella di essere stato per circa trent’anni, per sei legislature parlamentari e per dieci anni e mezzo, uomo di governo sempre fisso alla difesa e quindi di aver 

assunto particolari responsabilità. L’ultima esperienza di quest’ultimo quindicennio, è di aver fatto il magistrato amministrativo e adesso sono da pochi mesi in pensione e sul mio biglietto da visita ho scritto con una certa autorevolezza Presidente Onorario di Sezione del Consiglio di Stato.

 

 

       Premesso questo, non in chiave personalizzata, ma soprattutto per fare un richiamo alla coscienza, a cui ha fatto una puntualizzazione perfetta l’ottimo scienziato ed amico Michele Trimarchi, colloco le mie tre affermazioni in questo quadro.

 

 

           E’ evidente che c’è una polifonia, una polivalenza – altrimenti non sarebbe un Convegno – una diversificazione, che però si coordina e si unifica nel momento stesso in cui l’argomento principe emerge come emergerà alle conclusioni che, se saranno valide e buone come sono state quelle iniziali della Vice Presidente, carissima amica Papeschi, e quelle altrettanto valide del carissimo amico Enrico Ferri, dovranno portare ad una risposta che efficacemente ed idoneamente ci renda ancora più convinti dell’utilità e dell’opportunità che questo Convegno apra una strada da percorrere e non da lasciare sospesa.

 

 

          Mi auguro che gli apprezzamenti di carattere preminentemente scientifico sulla centralità dell’uomo – una rassegna così valida che io sento per la prima volta, quale è quella fatta da Trimarchi – aprano anche la strada a delle conclusioni utili alla sete di giustizia della società umana.

Vorrei fare soltanto un’osservazione.

 

 

            I contenuti di questi vostri magnifici discorsi devono calarsi in una realtà.

            E qual è la realtà?

 

 

        La realtà è quella politico – istituzionale, politico – economico – sociale, politico – parlamentare.

 

       Sicché la problematica sollevata da questa centralità dell’uomo, mi induce a ritenere che sia opportuno collocare quest’uomo in una società intelligentemente scientifica e allo stesso tempo politica – quale è quella giustamente apprezzata da Trimarchi.

 

 

           Non l’uomo in quanto oggetto di imputabilità, ma l’uomo in quanto cittadino dello Stato.

 

      Ecco che sono d’accordo con Santiapichi quando differenzia e categorizza l’uomo in tre momenti: uomo cittadino, uomo magistrato e uomo imputato.

 

 

           Volevo richiamare, infine, la vostra attenzione sulla parte conclusiva della relazione di Ferri, e cioè quando afferma che il discorso che noi facciamo, e che è indubbiamente un discorso di altissima levatura culturale e di grande intelligenza scientifica e politica, lo dobbiamo collocare nella realtà politica attuale, nell’assetto e nel riassetto istituzionale.

 

 

           Ecco quindi che nel riassetto istituzionale dobbiamo anche valutare che cosa possa essere l’uomo magistrato dei prossimi anni.

           Ho apprezzato moltissimo l’iniziativa presa dal Consiglio Superiore della Magistratura e cioè quella di rendere adeguati i magistrati alle nuove percorrenze, alle nuove regole, alle nuove normative.

 

 

           Il nuovo processo penale, ossia nell’attuale concezione, esige essenzialmente non solo una diffusa conoscenza della società ma in particolare richiede dall’uomo magistrato una più piena conoscenza delle nuove regole, molte delle quali, pur avendo letto attentamente i verbali nella prima e nella seconda Commissione parlamentare, ho sentito dalla autorevolissima voce del dott. Guasco.

 

 

          Quindi l’esigenza che io credo sia avvertita dallo Stato, dal Governo e anche dall’amico Vassalli è di rendere adeguata la cultura giuridica del Magistrato ai tempi moderni e a quelle che sono le nuove esigenze.

 

 

            Grazie per quel contributo che voi avete dato, non solo a magistrati che fanno da tempo questa loro vita dispendiosa di energia, mirabilmente incoraggiati da questo vostro Convegno, ma principalmente a coloro i quali dai vostri studi si attendono una parola che serva soprattutto allo Stato, alle sue istituzioni, ai suoi Ministri, non ultimo il Ministro di Grazia e Giustizia.

 

 

 

Ringrazio Marino Guadalupi, sia per le sue espressioni così gentili, sia per quel richiamo forte alla concretezza e al raffronto poi reale e realistico con la vita quotidiana di tutti i giorni. Prego Avvocatessa Niccolaj.

 

 

Gabriella NICCOLAJ

Presidente Sezione Romana

Associazione Giuriste Italiane

 

           Grazie, Presidente di avermi dato la parola.

 

          Prima di tutto ringrazio perché l’Associazione Giuriste Italiane, di cui io sono Presidente della Sezione romana, è stata gentilmente invitata dal Prof. Trimarchi a questo bellissimo Convegno.

 

 

           Dopo questa tornata di interventi, così interessanti ed importanti, non avrei voluto prendere la parola; sento però la necessità di dire che nel processo c’è anche il difensore.

          E il difensore sarà bene che dica la sua, anche in questa tornata.

     Perché abbiamo detto che la centralità dell’uomo nel nuovo processo penale si individua nell’imputato o nell’accusato?

       Perché il processo penale in sostanza è un dibattito, perché dalla dialettica fra l’accusa e la difesa deve uscire la verità processuale.

 

 

         La verità processuale, ho detto, non la verità vera.

 

 

         E allora bisogna che in questa dialettica l’accusa e la difesa siano su un piano di parità.

      Si è detto che il nuovo processo penale avrebbe realizzato questo obiettivo, questa speranza, questa aspirazione di tutti i giuristi di marca democratica che vogliono l’attuazione dei principi costituzionali.

        Lo scopo del progetto di legge, che tra poco dovrà entrare in vigore, ritengo che sia proprio questo.

      Però, ad un’analisi approfondita del progetto di legge abbiamo la sensazione che questo obiettivo sia stato solo parzialmente realizzato in quanto si rilevano delle grosse sfasature.

          Ne dico una perché mi ha molto, ma molto preoccupato, come del resto preoccupa moltissimi difensori: la parte che riguarda le indagini preliminari.

        Queste sono affidate alla Polizia e al Pubblico Ministero, i quali hanno un termine che può essere anche di sei mesi per portare avanti queste indagini preliminari senza che l’uomo, cioè il probabile, presunto, futuro imputato o accusato ne sappia qualcosa.

 

 

          C’è una modifica di quello che è stato un istituto molto criticato ma che aveva a mio parere, invece, la sua validità: la comunicazione giudiziaria, che si chiamerà non più comunicazione giudiziaria ma comunicazione di garanzia – adesso non ricordo esattamente – ha insomma un diverso nome, ma praticamente è sempre la stessa cosa.

         Questa comunicazione giudiziaria invece di essere inviata immediatamente all’eventuale accusato appena si iniziano le indagini nei suoi confronti, può essere spostata fino al momento in cui non ne debba essere dato avviso al difensore per un atto al quale il difensore debba essere presente, questa è la novità.

             Il che vuol dire che può anche accadere che per sei mesi si indaghi nei confronti di un cittadino senza che questo ne venga messo al corrente. Mi sembra che questa, per esempio, sia già una grossa sfasatura che può portare ad uno sbilanciamento della parità di trattamento fra accusa e difesa o fra accusa e imputato.

 

 

             Vi è anche un altro istituto che è molto preoccupante, quello dell’incidente istruttorio che può riproporre la situazione del giudice istruttore che comunque può riportare in seno a questo nuovo processo l’istruttoria non più formale ma di tipo formale.

          Anche questo è un altro scoglio nella nuova procedura che potrebbe ancora di più determinare uno sbilanciamento tra accusa e difesa.

         Tutto questo è il timore, tutte queste sono le nostre preoccupazioni, che per altro possono essere fugate sol che i giudici, e qui ne abbiamo tanti e valorosissimi e a loro ci rivolgiamo, non applichino la nuova procedura con una visione restrittiva e portando avanti, eventualmente, una giurisprudenza che possa invece che aprire le porte di questa parità, chiuderle.

 

 

           Il nostro auspicio è ricolto alla magistratura perché nella sua giurisprudenza futura tenga presente la necessità che l’uomo sia veramente al centro del nuovo processo penale, e lo potrà essere sol che si realizzi la vera parità tra difesa e accusa. Grazie.

 

         La difesa ha parlato bene e con toni appassionati e credo che abbia posto un problema di particolare rilievo, cioè l’equilibrio tra accusa e difesa che non è facile da raggiungere.

            Nel nuovo processo penale è richiesta, proprio riguardo all’uomo, anche una particolare professionalità non solo del magistrato ma anche del difensore perché attraverso la cross examination, questo uomo si troverà sotto il tiro incrociato di domande.

 

 

          Tutto questo richiederà un certo tipo di atteggiamento culturale, mentale e professionale, profondamente nuovo. Ora la parola ad un magistrato, Antonio Leo, un carissimo amico della Corte di Cassazione. Prego.

 

 

Antonio LEO

Sostituto Procuratore Generale presso

la Corte Suprema di Cassazione

 

 

           Il mio piccolo intervento vuole rappresentare qualche sottolineatura.

 

           La prima sarà forse d’indole più tecnica, la seconda sarà fatta con una certa amarezza perché ci si è dimenticati di una centralità fondamentale e non solo adesso, ma in altri Convegni in cui si parla e del processo penale e del nuovo processo penale.

 

 

         Volevo solo accennare alla centralità del giudice.

 

 

         E’ stato anche detto, mi pare dal Prof. Trimarchi, che il giudice può venire in considerazione anche come imputato.

          In un certo senso questa legge sulla responsabilità del giudice ha posto l’attenzione sul giudice in una veste diversa.

          E allora poniamo per il giudice questo momento di centralità, perché il giudice, prima di tale, è un uomo. Homo sum – non vorrei ricordare Menandro, perché non tutti l’attribuiscono a questo autore – humanae nihil a me alienum puto.

          Quindi – è il caso di sottolinearlo – niente di ciò che è umano è estraneo al giudice.

 

 

      E allora c’è un dramma che il giudice vive continuamente e che è bene che si ponga all’attenzione degli altri.

          Spesso si parla male di noi giudici perché giudichiamo male.

 

 

           Ma vorrei chiamare ognuno di voi, l’uomo della strada, che forse ha più buon senso degli altri e chiedergli: “Come giudicheresti in questi casi?”

       E allora si deve giudicare – ecco la problematica che voglio porre – secondo la lezione di Antigone?

          Secondo la lezione di Socrate?

 

 

       E la lezione di Porzia io la ricordo perché non è assolutamente formalistica e non attiene assolutamente ad un momento di positivismo giuridico.

           E’ una sentenza che attiene a momenti di valori.

 

 

          Ma il dramma del giudice continua ancora.

 

 

          Come vi porreste voi dinnanzi alla legge giusta, alla legge valida, alla legge efficace?

 

 

          Io vi ho tracciato tre momenti che corrispondono a tre indirizzi filosofici ben distinti: vi parlo di giusnaturalismo, del positivismo giuridico, del neorealismo, scandinavo o americano, lascio a voi la scelta anche con le differenziazioni che ci sono.

          Quindi, come si giudica?

 

 

            Il giudice ha questa antinomia profonda: le agrapha e i nomoi.

           Non sono d’accordo con il Prof. Trimarchi, se mi consente, quando pone il diritto naturale in relazione ai geni: questo è un lungo discorso che si deve fare e spero di farlo in maniera approfondita perché pone problemi fondamentali e non possiamo guardarli tutti in termini di geni.             Il diritto naturale è qualcosa che già eccede, va al di là e deve essere separato.

         Che poi ci siano delle leggi scritte anche nella nostra composizione chimica, mi consenta Prof. Trimarchi, è un dato diverso.

 

 

         Quindi come si deve porre il giudice nel conflitto tra la moralità di una situazione e la positività della legge?

             Mi riallaccio all’intervento della signora che mi ha preceduto per chiedere quale verità si deve accertare nel processo.

                  È la verità sostanziale? O la realtà processuale?

            Mi si consenta di dire che la realtà processuale può essere soltanto il risultato della limitatezza del giudice, ancora una volta, ripeto, homo sum, con tutto quello che segue.

 

 

               Ma il giudice deve tendere all’accertamento della verità vera. E allora anche qui volete un giudice che agisca secondo l’etica dell’intenzione – il richiamo a Max Weber è obbligatorio – o volete un giudice che agisca secondo l’etica della responsabilità? Sono problemi che vi pongo e non vado oltre.

           Ora un altro momento di centralità al quale io ho accennato, con amarezza, è questo: si è parlato di centralità con riferimento al rapporto processuale: giudice, imputato, pubblico ministero.

 

           La signora ha inserito anche il difensore. Certo, anche il difensore.

           Ma vorrei dirvi una cosa. Dove mettiamo la centralità della parte offesa, delle vittime?

 

 

         Il processo è un luogo di dibattito di valori, dove sono i valori delle vittime?

        I valori del dolore?

 

 

        L’individuo che ha dato la vita per lo Stato si proietta in quel processo nel quale è rappresentato idealmente dai parenti delle vittime con il loro dolore.

         E quindi quando parliamo di ragioni degli altri, caro Santiapichi, non possiamo riferirci solo alle ragioni dell’imputato.

 

 

          Ricordiamoci pure delle istanze positivistiche, Enrico Ferri, ma teniamo presente anche la responsabilità sociale degli altri. E’ vero che dobbiamo avere riguardo a quelli che sono diritti dell’imputato, e ti dico di più, che dobbiamo avere riguardo anche al rispetto del condannato.

             Quindi – ed ora mi rivolgo al Ministro dei Lavori Pubblici – un primo punto da affrontare per agevolare l’applicazione di quanto sopra, è proprio l’edilizia carceraria.

 

 

            L’edificio carcerario dovrebbe avere già una sua struttura, non essere costruito in orizzontale, laddove la massa dei condannati sta a contatto di gomito, ma anche in verticale dove possa stare soltanto l’isolato, il delinquente primario (che non deve essere inquinato dalla delinquenza degli altri).

 

 

            Per quanto riguarda la difesa, l’avvocato deve essere umile e tendere a portare le proprie tesi verso un equilibrio, considerando che nel binomio, nel contrasto, si viene a raffinare quella giustizia che porterà in sintesi al problema dell’uomo e della sua sofferenza e al problema dell’uomo che deve essere considerato come il bambino di cui parlava il Presidente Felicetti e – alla maniera di Gian Giacomo Rousseau – riportato nell’albero del giusto, ma non scansato.

 

 

           Noi abbiamo delle società che sono divise in vari strati: la società sofferente e povera scansata con tutta la nostra ripugnanza e la società opulenta che contrasta questa manifestazione di sdegno da parte dell’altro sofferente.

            Quindi, in questa unione, in questa simbiosi, c’è l’afflato umano e attraverso questo afflato umano noi avremo la regola fondamentale della giustizia, che viene riportata sul problema dell’uomo: un uomo che non deve più soffrire, ma che deve essere amato da tutti noi. Grazie.

 

 

 

CONCLUSIONI

 

             E’ tardi e le voci su quest’argomento così appassionato si accavallano e credo che ciascuno di noi abbia provato dentro di sé lo stimolo di affrontare qualche aspetto, sempre diverso, di un tema che, avendo come centro l’uomo, inevitabilmente si potrebbe allargare all’infinito.

            Ne sono venuti di spunti interessanti e di valutazioni e credo che tirare delle conclusioni definitive non sarebbe praticabile e nemmeno serio.

 

 

             Giustamente Leo per ultimo diceva: “pensiamo alle vittime, alle parti lese”, pensiamo anche alla paura dei testimoni, all’omertà che discende da una serie diversificata di ragioni.

 

 

               Pensiamo ad un altro protagonista del processo – me lo faceva venire in mente la presenza di Birzoli, il Vice Presidente della RAI – la stampa, le telecamere con tutti i problemi della riservatezza, del diritto all’immagine, del complesso modo di porsi dell’individuo verso l’opinione pubblica.

 

 

              Quanti problemi emergono attraverso la centralità dell’uomo nel nuovo o nell’antico o nell’attuale o in qualsiasi tipo di processo penale.

             Il processo penale è ineliminabile, è un processo che la società dovrà sempre cercare di adeguare di più alle esigenze fondamentali di dignità e di rispetto di ciascuno di noi, quindi dell’uomo, del cittadino. Dovrà renderlo a misura di uomo e cioè che fornisca effettivamente quel servizio a cui la Costituzione della Repubblica si riferisce.

 

 

            Io credo che il problema vero sia far capire all’uomo, al cittadino che si trova al centro di un dramma, diciamo psicologico che è certamente il processo, cosa significhi processo e credo che il problema più difficile, più importante, sia il recuperare un rapporto nuovo tra la ritualità del processo e la sostanza del diritto.

            Noi oggi viviamo un processo che spesso non viene compreso fino in fondo per un certo tipo di ritualità.

        E mi viene in mente un brevissimo episodio con cui io vorrei chiudere questo argomento così interessante.

         E’ un esempio di vita vissuta. In una delle udienze cui partecipai come Pubblico Ministero in Cassazione, dove in genere l’uomo non c’è – per lo meno non fisicamente – l’imputato si presentò al dibattimento.

           Veniva da un paese lontano con una valigia di cartone. Venne lì, nel processo e chiese la parola. Ci guardammo tutti perché l’imputato non può prendere la parola.

           Il Presidente del Collegio mi guardò – era una mattina assolata – e mi disse: ”Mah, facciamogli dire qualcosa, che dici?” “Bene, facciamogliela dire”.

 

 

             E questo cittadino disse: “Mah, io ho tanta fiducia nella giustizia, ho tanta fiducia nei giudici, mi rimetto a voi, mi rimetto alla giustizia”. E poi se ne andò nel grande corridoio della Cassazione ad aspettare.

 

             Finite le udienze di quella giornata, i giudici si ritirarono in Camera di Consiglio e si avvertì alla fine che il processo relativo a quell’individuo non si poteva affrontare perché c’era stato un discorso esperito fuori termine.

 

 

              Evidentemente nel preventivo del giudizio di ammissibilità era sfuggito e quindi non si poteva entrare nel merito, sia pure sotto il profilo della legittimità.

           Il caso era chiuso, la Corte si ritirò, mi avvia anch’io verso la mia stanza quando incontrai questo cittadino seduto lì, ad aspettare.

 

 

           E allora mi sentii in dovere di andare a spiegare la situazione:”Guardi che l’avvocato” – che tra l’altro non era presente, come spesso capita nei giudizi di legittimità – “le ha fatto un ricorso fuori termine”.

           Questo sbiancò nel volto, cioè non riusciva a capire la ritualità del processo attraverso un termine e non riusciva a capire perché non si potesse decidere lo stesso.

 

 

         Dentro di me avvertii un distacco tra l’istituzione e il cittadino e mi porto ancora dentro questo tipo di sensazione.

 

 

          Io credo che la ritualità ha una sua finalità e certamente non si può eliminare.

          Però deve essere adeguata alla vita complessa dell’uomo che è stata ricordata questa sera e che è riemersa in tutti gli interventi, in tutte le osservazioni.

 

 

          Noi ci incontriamo e ci scontriamo con una realtà di cui il legislatore deve tener conto, con un certo tipo di criminalità, con un certo tipo di lesioni, oggi sempre più difficili da inquadrare in una tipicità legale.

 

 

          Credo che già questa conoscenza, questo avvicinare il cittadino allo strumento processuale potrebbe essere un primo passo verso una nuova forma di civiltà e cioè la consapevolezza, il cercare di far capire, non solo nel settore giustizia, ma in tutti i settori vitali dello Stato che il cittadino è il destinatario in senso positivo dell’opera dello Stato stesso (anche se nel nostro caso questo tipo di destinazione deve passare attraverso una pena, intesa sempre in quel senso profondo che è stato evidenziato).

           Ma è questo tipo di rapporto civile che dobbiamo ricostruire tutti insieme e per far questo non basta soltanto un dialogo come quello di oggi, che consideriamo però necessario per avviare un discorso alla vigilia di una grande riforma che ci interessa tutti, non soltanto come tecnici di diritto, ma come cittadini, come consociati.

 

 

          E allora l’iniziativa che il CEU insieme al centro Lunigianese vorrebbe prendere consiste proprio in un’attività, anche seminariale, su questo argomento, tra magistrati, psicologi e soprattutto tra gente che sotto le diverse angolazioni e prospettazioni possa riuscire a trovare un avvicinamento, un modo di capirsi meglio nei momenti più traumatici della vita di relazione che sono rappresentati appunto dal processo.

 

 

          Credo che questo sia lo spirito emerso oggi dal dialogo che abbiamo avviato in maniera così interessante e articolata con la consapevolezza di far coincidere il più possibile la verità sostanziale a quella processuale.

 

 

         Tutto ciò con un limite che è garanzia di tutti e cioè il rispetto delle regole, limite che poi diventa contenuto positivo di una grande civiltà, di un modo opportuno di porsi gli uni nei confronti degli altri e tutti nei confronti di uno Stato che vogliamo sempre più democratico e sempre più libero.

 

 

           Non possiamo che chiudere con un grazie veramente sincero al CEU e al suo Presidente, Prof. Trimarchi e un invito a ritrovarci insieme più tardi nello spiazzo del Castello della Torre di Quinto per proseguire il nostro dialogo.